Napapiiri, ritorno al selvatico - Il mio Walden
- nahani7
- 4 set
- Tempo di lettura: 82 min


Wild Nahani
A quel solitario e selvaggio luogo dove
lo spirito rientra nella natura.
“Non si può toccare un fiore senza disturbare una stella”
(G. Bateson)
Questo libro è il mio testamento spirituale!
BE STRONG
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Prefazione
“C’è solo una speranza di respingere la tirannica ambizione della civiltà di conquistare ogni luogo della terra. Questa speranza è l’organizzazione delle genti più sensibili ai valori dello spirito, affinché combattano per la libera continuità della natura selvaggia”.
Robert Marshall
In questo, che definisco racconto naturalistico, volutamente sviluppato sotto la personalità di Larsen e in uno stile poetico narrativo, ricco di componenti surreali, ed in parte autobiografico, narro le vicende, le esperienze, le crisi esistenziali e soprattutto le riflessioni di un suo solitario surreale viaggio, scritte nella metafora di una sua dimensione mentale, spirituale ma forse anche fisica (il dubbio rimane nell’intera narrazione del brano), alla ricerca di un “punto di ascolto” dove comprendere e mettere a nudo le profonde motivazioni che sono alla base del dissidio drammatico tra l’uomo e la natura. Dopo un lungo peregrinare il personaggio raggiungerà il circolo polare artico, il “grande nord”, all’interno dell’affascinante foresta dell’emisfero boreale, la taiga, per porsi ai confini della realtà umana al fine di poter acquisire in solitudine ed in piena autonomia, le risposte che potrà apprendere solo nell’ascoltare “il vento” della wilderness, una wilderness non solo materiale ma anche interiore. Un indecifrabile sogno e soprattutto una misteriosa lettera che Larsen riceverà nel suo solatio luogo, gli svelerà e lo renderà consapevole di tutte le verità nascoste che nel suo essere erano in effetti già evidenti o in ogni caso latenti. Ed in questa dimensione la narrazione rivela il profondo senso della wilderness dei luoghi e dello spirito. Lo scritto è poi inframezzato da continui flash-back (i cui titoli, per evidenziarli, sono scritti con altro carattere ed il testo in corsivo) che tratteggiano la vita dell’orso bruno per evincere ancor più il palese contrasto tra il libero vivere di una specie selvaggia che da tempi immemori si ripete nei suoi ambiti naturali, e la nostra esistenza così incastonata di contraddizioni, di scissioni, di vite prive di consapevolezza. L’orso bruno funge da contrappeso ed è un’ottima guida per aiutarci a ricomporre almeno un tassello del nostro disarmonico vivere in cui troppi sono i pezzi sparsi perché “All’origine della venerazione dell’orso vi è il principio femminile della nascita, della crescita, della decadenza e della rinascita, perché l’orso è il modello supremo, e pertanto lo spirito guida, del tema del rinnovamento” (Paul Shepard a Barry Sanders).La narrazione delle gesta di un animale selvatico è un palese esempio che ci aiuta a focalizzare nel profondo lo spirito più puro della wilderness. I brani sulla vita dell’orso sono stati redatti mediante una libera e parziale rielaborazione ed adattamento alla regione e all’ambiente naturale finlandese, di molte delle descrizioni del lungo racconto di Franco Zunino, “I giorni dell’Orso bruno”. Questa scelta nasce dalla mia esigenza interiore di mantenere vivo il legame con l’Abruzzo e con l’animale per la cui protezione per molti anni mi occupai in quella natia regione italiana.
Attraverso la raffigurazione degli eventi e delle continue ricerche metaforiche e reali di “ascolto” di Larsen - prolungatesi nel corso delle stagioni dell’anno - il racconto vuole soprattutto simboleggiare la strenua difesa della libera continuità del mondo selvaggio, la considerazione del suo valore in sé, la riconnessione in forma unitaria e non dualistica con la natura e la vera tutela dell’ultima frontiera che sta scomparendo, affinché l’uomo moderno torni sui suoi passi per non estinguere, definitivamente, quel che resta della natura e dell’essenza delle cose.
E’ un grido, un appello sconsolato fatto a tutti gli uomini affinché si rendano consapevoli della giusta via naturale e si battano per riconquistarla e mantenerla. Ma una sorta di pessimismo pervade le conclusioni del racconto, poiché, alla fine, sostengo che la vera e concreta consapevolezza da parte del genere umano a voler mutare radicalmente il suo modo di agire, è estremamente esigua se non paradossalmente del tutto assente.
Il racconto, arricchito dalle profonde sensazioni che il personaggio Larsen descrive quasi in ogni pagina, è nel sottofondo illuminato continuamente dalle magiche e limpide luci del grande nord dominate da una silente ed primigenia foresta dove si ode il magico ululato del lupo e si percepisce il dinamico muoversi della vita di quelle contrade.
In tal modo Larsen, nell’intrecciare questa breve tela, rivela alla fine un messaggio semplice, ma eloquente: prima che l’ultima frontiera della natura scompaia è necessario sensibilizzare l’uomo nella sua interezza perché, come cita alla fine del testo, “Se perderemo veramente il mondo selvaggio..... - parafrasando un famoso scritto - il dolore si impadronirà di noi. Ma grazie ad esso, dopo, e qualora un dopo ci sarà, se dovessimo rivivere il selvaggio creeremo “forse” finalmente con esso un eterno rapporto di verità, di unione, d’infinito ed indissolubile rispetto.........”.
Wild Nahani
“Come i venti e i tramonti, la vita selvaggia era considerata sicura finché il cosiddetto progresso non ha cominciato a portarla via. Ora ci troviamo di fronte al problema se un ancora più alto livello di vita valga il suo spaventoso costo in tutto ciò che è naturale, libero e selvaggio”
Aldo Leopold
“
Ognuno ha un posto di ascolto da qualche parte”
Sigurd Olson
PRIMA PARTE
Napapiiri
Caro lettore,
D’improvviso un giorno
D’improvviso un giorno decisi di partire, ma forse fu più una viaggio della mente e della mia fantasia che una partenza fisica, non so; esso mi avrebbe dovuto condurre verso nuovi lidi, per aprirmi le porte verso una realtà ben diversa, in parte inaspettata, ma da me inconsciamente voluta e forse già nota. Issai le “vele” e presi il largo anche se la navigazione si sarebbe potuta presentare tutt’altro che agevole. Avrei dovuto comporre un complicato puzzle senza averne l’immagine guida.
Trovavo delle luci cangianti, delle aurore musicali, delle voci inusitate e, alla fine, un lungo e indecifrabile ascolto di un qualcosa che si librava in alto tra le cime dello spirito.
Era cominciata la mia ricerca, una ricerca che era senza soggetto ne personaggi, una ricerca eterea dove il fluire delle silenti ed indissolubili anime conducevano ad un necrologio di vita.
Proseguivo a tratti con difficoltà, perché ciò che è profondamente vero non sempre è così facile. Aprii il mio cuore, spalancai i miei pertugi e ascoltai in silenzio ciò che non udivo. Le luci, dopo la loro scomposizione, si ricongiunsero, ma sembravano sfuggire come foglie mosse da un forte vento.
Attraversai dune alberate, superai massi disarmonici, camminai lungo un sentiero che non vedevo, ma alla fine giunsi ad una improvvisa ed amena radura: aprii il mio petto e lasciai che le lacrime se ne andassero fluenti senza porre ostacoli. Era il veleggiare senza vento, ma un duro, veritiero risvegliarsi delle membra.
Fu così che partii dentro me stesso per trovare ciò che restava della natura, una natura morente che stava per essere sepolta, ma che io volevo ancora vedere e soprattutto sentire prima che l’ultima manciata di terra fosse versata sui suoi resti. E, cosa di non secondaria importanza, volevo ancora capire e dire qualcosa. Avrei dovuto viaggiare a lungo, molto a lungo per riconnettermi con un mondo ormai perduto da cui io stesso, forse, ne volli essere escluso. Dovevo trovare un luogo, un punto di ascolto, dove sentire un “vento” che probabilmente poteva insegnarmi qualcosa.
Ero costretto a viaggiare con la mia mente perché il silenzio della primavera mi obbligava a farlo. Non un passo, non un fremito fendeva l’aria immota e nulla, nulla sembrava voler elargire parola.
Mi accostai ad un tronco caduto, ormai trasformato in humus, il pane della vita; un tronco millenario che racchiudeva nei suoi vanescenti resti la storia di un declino. Non il suo - quell’albero ne era stato solo un testimone - ma quello del nostro io che pian piano si spegneva con la volontà decisa di farlo.
Giunsi ad un bivio. Due sentieri quasi impercettibili, ma in fondo palesemente delineati. Ne scelsi uno a caso, ma il tragitto che pensavo alternativo fu breve. Solo un centinaio di passi ed i sentieri si sovrapposero d’improvviso. Era forse un monito ad una finta scelta dove l’obbligo del procedere pareva che regalasse un diversivo. Il segno era chiaro: il cammino doveva essere percorso in unico senso privo di deviazioni e scevro di corruzioni. Poi vidi un impronta nel fango, una impronta di un animale etereo, plastico, vanescente, sublime. Era passato da poco e in quel dagherrotipo di immagine scorsi agevolmente l’autore: un lupo. Vidi in quell’orma un mondo infinito, un mondo di ululati, fughe, corse a perdifiato e rigogli di gioie estinte. Mi soffermai, riflettei, fotografai col mio pensiero e poi compresi: quanti incontri avrei potuto fare nel mio viaggio e quale giusta via seguire senza una guida? Decisi così, in un sol fiato, di farmi “portare” spiritualmente dal quel simbolo della wilderness della terra. Presi quella guida, la nominai più volte nel mio io e fui così rinfrancato che avrei sicuramente trovato il mio luogo di ascolto! Ma il mio ascolto non era concepito solo come un udire qualcosa, ma soprattutto percepire dei messaggi, dei simboli, delle comprensioni eteree, delle sensazioni profonde che avrebbero travalicato lo spirito al di sopra di un meccanicismo palesemente tangibile.
Il mio viaggio era volto a settentrione, il grande nord della madre terra dove al freddo fisico che pungeva l’anima si contrapponeva la luce della limpidezza. Avevo ora almeno un punto di riferimento, un punto cardinale chiaro e definito. Ed avevo, soprattutto, la mia guida spirituale.
Sapevo di calpestare la mia ombra, ormai raggelata per la sua ineluttabile vanità. Calpestavo il mio dolore e la mia inerzia dinanzi al cangiarsi delle remote stagioni dell’anima. Seguivo intanto la pista del lupo e scorgevo, ai bordi del sentiero, le inevitabili devianze cui la mente tende. Distorsioni esistenziali, vacuità delle cose e, sopra ogni elemento, lo spirito fuggente che perde l’attimo per carpire il significato della terra. La nuda terra sotto i miei piedi e, dinanzi al chiaro vedere delle cose, l’oscura ombra di me stesso, intrisa di speranze egoistiche e centripete.
Il giorno fu lungo, il cammino incessante, ma la mia meta, il punto di ascolto nel grande nord, doveva essere raggiunta. Solo lì percepivo che avrei potuto ascoltare l’assoluto e l’inossidabile vento delle magie dove ogni parametro si sarebbe disgregato per ricomporsi nel giusto verso della natura in una affinità elettiva senza compromessi.
Ignare follie, tristezze certe, allucinazioni reali e, nel mezzo, la mia ombra ormai unificata a quella della mia guida. Il desiderio di avere, di possedere, calunniava ciò che c’era di più puro nella madre terra. Io, la mia ombra, il mio intero stava ben appollaiato da un lato e, distinta e allontanata, la natura sembrava che mi osservasse sgomenta perché da me “volutamente” disgiunta. Avevo reciso ciò che era indivisibile, avevo rimosso ciò che era inamovibile ed ero entrato, classicamente e con spavalderia, nella mia mente divisoria rinunciando a quell’unicum che era il flebile, ma incessante vento delle origini.
Ero una pietra, un sasso lanciato nel vuoto e traslavo tutta la mia pazzia verso il nulla della dualità. AVEVO SCISSO l’inscindibile, avevo sciolto l’indissolubile ed avevo gridato al mondo, forse ignaro del grave errore, il mio successo nel fare tutto ciò..........
Camminai molto, giorni e giorni, lasciando dietro alle mie spalle latitudini dopo latitudini. Cangiava ogni elemento, le foreste di conifere prendevano il posto a quelle delle latifoglie, e gli animali, sempre nuovi, mi guidavano verso settentrione. Un orso bruno nel fitto della foresta, un’alce da qualche parte, una grande diga di un castoro che implacidava l’andare delle acque e, la mia guida, il lupo, che, pur se non vedevo, mi indicava ognora la via. Ero a tratti stanco, ma sapevo che dovevo farcela.
Trascorsero molte lune e, giorno dopo giorno, guadagnai centinaia di chilometri. Non sapevo dove mi sarei dovuto fermare, ma fidavo nel mio senso interiore. Intanto nella mia mente si susseguivano velocemente le immagini della mia e soprattutto di tutta la vita dell’uomo con le sue “quiete disperazioni esistenziali” e con il suo procedere verso un luogo non definito, ma chiarissimo: la disintegrazione totale dell’ordine caotico della madre terra. Una disintegrazione che portava seco anche se stessi, ma, anche se non del tutto ignari, procedeva con estrema determinazione, come il fluire di un impetuoso tratto di fiume: “l’Occidente è una nave che sta colando a picco, la cui falla è ignorata da tutti. Ma tutti si danno da fare per rendere il viaggio più confortevole”. Quelle immagini mi scorrevano l’una dietro l’altra e tutte avevano un unico filo conduttore: recidere drasticamente il senso di unità con la terra. Era la stessa sensazione che avevo in me stesso, ma in questa occasione essa era traslata all’intera razza umana, almeno quella gran parte che rincorre il nulla e la divisione. Ma nel complesso, anche se in fondo non ci riuscivo, cercano con forza di non farmi soggiogare dal pensiero della sofferenza. Ricordai a tal proposito un bellissimo passo di un libro che ebbi la fortuna di scorrere qualche tempo prima: “Ogni infelicità è in parte, per così dire, l’ombra o il riflesso di se stessa: non è soltanto il proprio soffrire, ma anche il dover pensare continuamente al proprio soffrire. Io non solo vivo ogni interminabile giorno nel dolore per la sua morte, ma lo vivo pensando che vivo ogni giorno nel dolore.......”.
Cieli plumbei, crepuscoli dorati, aurore vanescenti e luci che nella loro intensità illuminavano a giorno il mio pensare.
Il grido del cuore, l’effimero innalzato, l’inutile arricchito e l’essenziale ignorato.
Il vento sulle guance, il fruscio delle foreste e, d’improvviso, il fragore del tuono dopo il fulmine.
Il mio procedere era rallentato perché sentivo che la mia guida ora progrediva non più linearmente, ma si fermava ad annusare l’aria, zigzagava a destra e a sinistra, come per dirmi che il momento di fermarmi era molto vicino. Ma non sarebbe stato certamente un fermarmi statico, ma fondamentalmente dinamico e soprattutto riflessivo e costruttivo perché per comprendere appieno l’essenza dei fatti, l’unico modo era quello di ascoltare la natura. Il segno mi sarebbe quando prima arrivato.
Mi trovavo in uno scenario quasi surreale: articolate colline sullo sfondo, un sinuoso e a tratti impetuoso fiume nelle vicinanze e, dappertutto, una grandiosa, millenaria foresta primigenia. Un ambiente che toglieva il respiro, che concedeva all’essere il più profondo senso della wilderness dei luoghi e dello spirito. Ero forse giunto al mio luogo di ASCOLTO, dove avrei probabilmente compreso il giusto esistere e avrei respirato nella mente l’aria dell’armonico vivere. Ascoltare, comprendere, riflettere........... Mi sovvenne a quel punto una riflessione che un tempo non la condividevo in pieno, ma ora forse vi scorgevo qualcosa di coinvolgente:“La vita va vista attraverso tutte le sue sfumature come i colori di un prisma. Occorre lasciarsi penetrare dalle mille luci che la attraversano, perché poi alla fine del processo tornano a ricomporsi, basta non opporre resistenza; ci sono cose che vanno vissute con partecipazione, come il male e il bene, l'amore e la gioia. E’ necessario farsi attraversare da loro e guardarle, in modo distaccato ma presente, facendo capire a chiunque che sei tu il padrone di te stesso, della tua mente e del tuo corpo”.
Fu questa la mia prima sensazione di pensiero ora che mi toccava il compito più arduo. Ricomporre il mio dissidio con la natura attraverso la penetrazione nei più reconditi recessi del proprio cuore onde demolire poco alla volta tutto quel trascorso errato e tangibile, ma del tutto effimero di cui la mia mente, ben rappresentante di tutto il genere umano, era così fortemente incastonata. Era come dover lavorare in una miniera per rimuovere il superfluo e trovare la vena madre, la fonte di tutte le ricchezze.
Dovetti muovermi ancora per una decina di giorni, valicare numerose colline e guadare piccoli fiumi, ma alla fine mi resi conto che il mio procedere non aveva più senso. La pista della mia “guida” era infatti scomparsa. Avevo percorso un lunghissimo cammino ed ora mi accorsi che ciò che cercavo potevo scoprirlo in tutta la sua interezza. Dovevo semplicemente, per modo di dire, ripulire a fondo le incrostazioni del mio essere, togliere i tappi dalle orecchie e cominciare ad ascoltare..........
Ero dunque alla mia prima meta
Ero dunque alla mia prima meta: avevo trovato l’importantissimo senso del luogo nel pieno della taiga, la grande foresta dell’emisfero boreale. Era il mese di maggio, ma mi occorreva un riparo perché non sapevo se sarei dovuto rimanere un anno, un decennio o l’intera vita.
Muovendomi qua e là, poi, tra il fitto della foresta, poco distante da un fiume e da un lago adiacente, vidi improvvisamente le fattezze di una vecchia capanna. Era costruita grezzamente in tronchi di pino, ma in molte parti era malandata. Sapevo che mi sarei dovuto mettere al più presto al lavoro per renderla abitabile soprattutto per quando sarebbe sopraggiunto l’inverno perché il freddo pungente che regalava il circolo polare artico non concedeva compromessi. Fortunatamente all’interno vi era una vecchia, grossa e sostanziosa stufa in ghisa, un tavolo massiccio, una sedia, uno scaffale di fronte alla porta e altre piccole pratiche masserizie. Sembrava che quella austera abitazione fosse stata abbandonata da non molti anni; vi era vissuto probabilmente un uomo solitario in cerca di pace o fors’anche un naturalista sensibile ad una vera natura o un anacoreta. Ciò non aveva importanza, ma occorreva porre mano alle dovute riparazioni.
In primis comincia dal tetto, perché in alcuni punti era praticamente da rifare. Fortuna volle che dietro la capanna vi fossero numerose assi già tagliate e, senza riflessione alcuna, le presi e mi misi all’opera. Il tetto fu pronto in meno di una settimana. Ora dovevo stuccare alcune fessure che si erano determinate tra i tronchi e, mentre procedevo nel lavoro, mi sentivo più un castoro che un essere umano. Pulii ben bene la stufa e la canna fumaria, costruii una lunga panca e sistemai al meglio ogni altra cosa che sembrava non essere a posto. Un’ampia finestra volgeva lo sguardo a sud, verso un fiume e un lago, una seconda volgeva la veduta verso ovest, mentre il pagliericcio su cui dormire era posizionato non molto distante dalla stufa. In inverno i quaranta gradi sotto zero probabilmente non si sarebbero fatti lesinare. Feci dei piccoli, ma piacevoli ornamenti e poi passai all’ultimo compito: preparare una congrua scorta di legna, altrimenti tutto il lavoro era stato solo un passatempo. Quest’ultimo compito fu, come ben si sa, estremamente faticoso, ma ebbi almeno la fortuna che le falde del tetto della dimora fossero sufficientemente sporgenti tanto che potei mettere a riparo, in strette cataste, la legna tagliata e spaccata. In meno di un mese il luogo era nuovamente vivificato ed ogni cosa era al giusto posto. Poi praticai un classico rito nordico, un’usanza per “battezzare” una nuova capanna: accendere la stufa e da fuori osservare il fumo che esce dal comignolo. Alla fine, scalpello alla mano, incisi su un cerchio di legno la mia frase preferita “Lathe biosas” (vivi nascostamente) e lo posi proprio sopra la porta principale d’ingresso (un’altra, infatti, era posta sul retro). Per ultimo decisi di dare un nome alla capanna e la scelta venne da sola “Listening point”.........
Ora che la casetta era stata riassettata dovevo fare un altro importante lavoro: attrezzarmi per ottimizzare al meglio una rudimentale canna da pesca, fabbricarmi un paio di racchette da neve e allestire qualche trappola per catturare qualcosa che mi garantisse il giusto nutrimento. Alla fine le cose fondamentali furono pronte e cominciò così la mia nuova vita........
Per alcune settimane
Per alcune settimane girovagai nei dintorni della capanna per familiarizzare più possibile con il luogo, per scoprirne i passaggi migliori, i sentieri più agevoli, i limiti delle escursioni e trovai molti segni della presenza di una ricca e variegata fauna. Ma questo lo avrei scoperto nel dettaglio nei tempi successivi.
Silenzio sublime, silenzio eloquente, questo era il sottofondo della mia nuova dimora. Il fruscio delle piante mosse dal vento e il balzare delle acque del fiume, li udivo come qualcosa di armonica struttura dove il contrappunto riusciva ad insinuarsi plasmaticamente nel mio io.
Quando più o meno cominciai a compenetrarmi con il luogo, o meglio con il senso del luogo, decisi di avere un quaderno degli appunti su cui annotare le cose pratiche e quel poco che le parole potevano tradurre dalla mente e dalle sensazioni. Ma esso mi sarebbe stato utile perché nello svolgere la traduzione tra mente e scrittura, avrei sicuramente avuto un maggior impulso alla riflessione........ Evitai le date perché scandivano un tempo troppo tecnico, schematico, troppo poco espansivo. Avrei scritto senza tempo, fuori dal tempo e soprattutto senza dogmi e paradigmi altrimenti avrei detto molte cose, ma non certo l’essenziale.
Ero ormai integrato
Ero ormai integrato nel mio luogo romito e selvaggio e la mia vita si era perfettamente plasmata con una realtà che da agognato sogno era divenuta ormai palpabile. Sinfonie di natura avvolgevano l’esistenza quotidiana e il trascorrere delle giornate mi arricchivano continuamente di inusitate estasi di bellezze. Una natura incontrastata fungeva da costante sottofondo e nulla sembrava insinuarsi per disarmonizzare il mio essere. Luci cangianti, suoni indecifrati, visioni surreali erano le mie compagnie quotidiane. Vivevo respirando il senso della vita e traslavo la mia anima in un mondo di libere fantasticherie. Mi trovavo nella più profonda solitudine, ma era una solitudine piena di eventi e di contrasti che non creava in me alcun senso di disagio, anzi mi donava una continua pienezza interiore. Dovevo riconnettere le mie distanze, ormai da troppo tempo assemblate nella mia interiorità.
I giorni trascorrevano come sortilegi di avventure e il vento dello spirito alitava sopra ogni cosa. Acquistavo giorno dopo giorno una profonda pace con me stesso ed il mio cammino era sempre più delineato e creativo. Le grandi foreste primigenee si rappresentavano come immense cattedrali nella natura e il sinuoso muoversi delle acque dei fiumi e dei torrenti sembravano descrivere il moto dell’anima, mentre i placidi laghi racchiudevano la calma dello spirito. Tutto, insomma, era un inno all’armonia e non v’era momento in cui affiorava stanchezza mentale o irrequietezza delle membra.
Attimi fuggenti carpivano il mio dire e sensi di luce chiudevano ogni pertugio. La vita era manifesta in ogni movenza di essa e il cangiarsi degli eventi dava al tutto un finanche smisurato senso di appartenenza. La mia anima era come un mondo all’interno di un altro mondo e tra loro v’era sempre più un solido legame di continuità.
Quando mi ritrovavo raccolto nella mia capanna, sentivo di non essere isolato dal fuori ma sempre di muovermi in ogni istante in una incessante dinamica di eventi unitari. Non avevo scissioni e tutto si incorporava in un unicum fatto di un solo elemento. Dopo tanti anni di disarmonie e di contrappassi ora ero quasi giunto ad un dimensione profondamente unitaria. Non v’era più una natura definita e ben distanziata dal suo agire ed essa era una sol cosa con i tratti velati dell’umano esistere. La mia era ancora una forza cagionevole poiché doveva, malgrado tutto, integrarsi completamente con lo spirito univoco delle cose, ma ormai il sentiero era stato delineato e non mi restava altro che percorrerlo per acquisire, come una sorta di osmosi, le ricchezze che una volta appartenevano alla nostra indole unitaria e che negli ultimi millenni si erano progressivamente dissociate.
Quanta beltà spumeggiava nei più reconditi recessi della natura, una natura intatta e primordiale dove lo spirito doveva “obbligatoriamente” rientrare per percorre un cammino che era stato interrotto da sin troppo tempo. O anima gentile, illumina il mio percorso e prendimi per mano affinché io rientri, nella più assoluta totalità, in tutto quello che avevo voluto abbandonare.
Un ruolo tutt’altro che secondario veniva svolta dallo stare per proprio conto, una solitudine che fungeva da catalizzatore per unificare i mondi separati.
Una corrente di vita trasaliva dalla selvatichezza delle cose ed avvolgeva il mondo, così ch’esso sembrava inglobato in un mare vivente. L’aria era satura di vita e dovunque aleggiava un respiro ed un moto che alimentava il senso delle cose. Le rocce nella loro apparente immota stasi, parevano scuotersi per reclamare la loro insostituibile presenza e sembravano indicare la giusta via da seguire affinché, mentre percorrevo il mio sentiero, non smarrissi mai la direzione.
Udivo un continuo inno alla solitaria esistenza sempre più volta ad una unione ormai inevitabile ed imprescindibile. Ma il cammino era tutt’altro che facile, anche se la meta era in prossimità di essere avvistata. Come potevo riuscire nel mio determinato intento? E’ vero, lo sentivo dentro, ma non avvertivo che era stato acquisito in tutta la sua verità e consapevolezza. In altri termini avevo in me lo spirito teorico di tale riconnessione, ma quella teoria doveva trasformarsi con l’interiorità pratica del profondo.
Trascorsi alcune settimane in balia di eventi inaspettati, ma sapevo che era indispensabile che mi muovessi, altrimenti avrei convissuto con una stasi che agognava a qualcosa ma che non poteva arrivare in alcun luogo, essendo solo privo di attività dinamica……..
Quella sera uscii sul tardi
Quella sera uscii sul tardi perché sentivo che qualcosa mi stava chiamando. Camminai una mezz’ora, erano le undici di sera, ma c’era piena luce a quelle latitudini estreme. Guadagnai un dolce pendio boscoso e mi affacciai al di là di esso e, pur se non distinsi chiaramente le sagome che vidi, i miei occhi o, forse la mia mente, si posero su un branco di lupi che sinuosamente solcava il sottobosco dell’area. Svanirono subito dalla mia percezione, ma, ciò che mi fece trasalire oltre le soglie del divino, fu che qualche minuto dopo, verso est, già a notevole distanza, udii chiaramente - o fu la proiezione ancora della mia mente - il loro ululare, come una musica indomita che permeava la sala acusticamente perfette di un auditorium. Il mio auditorium era però alquanto più grande e si espandeva in ogni pertugio di quella fantastica natura selvaggia che mi circondava in ogni dove. Lì ascoltai per tutto il tempo che ulularono, forse qualche minuto, ma per me quel tempo che appariva così breve, mi sembrò infinito perché infinito ed indecifrabile era il vero significato di quell’ululare. Nei reconditi recessi del mio io, in quel particolare viaggio di ascolto che avevo voluto intraprendere, l’ululato e le gesta del lupo rappresentò, un elemento importante per la mia ricerca della comprensione.
Un primo ascolto arrivò dunque nel mio spirito quella notte, un ascolto che mi avrebbe spianato la strada verso altri successivi spesso indecifrabili “segni” e soprattutto verso la volontà di capire qualcosa che, pur se dentro me, come detto, era probabilmente presente, non appariva ancora allo scoperto in tutte le sue vestigia di chiarezza e di verità. Era infatti sicuramente giusta la riflessione di Farley Mowat quando scrisse: “Da qualche parte a est un lupo ululò in tono leggermente interrogativo. Riconobbi la voce perché l’avevo udita molte volte in precedenza..... Ma per me era una voce che parlava del mondo perduto un tempo nostro, prima che scegliessimo un ruolo in contrasto con esso; un mondo di cui avevo avuto un barlume e in cui era quasi entrato ..... soltanto per restarne escluso, alla fine, dal mio stesso io”
L’indomani, il sole espandendosi in un cielo terso si irradiava in ogni dove, e quella divina luce sembrava comporre lo sfondo di un palcoscenico fosforescente dove ancora gli attori dovevano presentarsi alla recita. Io, in ultima fila, attendevo con impazienza poiché desideravo assistere ad una rappresentazione che, stando alla trama che lessi, mi appariva estremamente interessante ed istruttiva. Presi a camminare lungo il bordo est del fiume per una decina di chilometri e, nel mio procedere, osservavo con attenzione le variegate immagini che a spaglio il luogo offriva in forma radiante. Curvai versi destra, questa era la volontà del corso di quelle acque, e, d’improvviso, vidi che in quel tratto il fiume s’apriva in un’ampia ansa placida e ben delineata. Osservai i bordi con il binocolo e trovai subito l’autore di quell’opera: il castoro. Infatti, oltre alle sua tana posta sulla sponda opposta (un intrico di rami e terra ben saldati fra loro a forma di piramide), dove il fiume restringeva, quell’ingegnere forestale aveva nel tempo ammassato e sagacemente intrecciato tra loro rami, bastoni, fronde e finanche un tronco di ragguardevole misura. Rimasi ad osservare ammirato e controllai con curiosità e particolarità tutto lo sviluppo di quella struttura. Una vera e propria opera di idraulica fluviale, con tutti gli elementi che, nell’ armonizzarsi fra loro, creavano quell’angolo davvero particolare e funzionale. Il tutto ovviamente non era il frutto di improvvisazioni e casualità, ma di un attendo studio della situazione ambientale che il castoro aveva elaborato per creare l’optimum per le sue esigenze vitali. Tralascio le descrizioni e le motivazioni tecniche di quel lavoro, ma la cosa più bella fu che anche quell’immagine, sicuramente realmente esistente, rappresentava un altro ascolto per il mio spirito.
Stavo comprendendo che i doni che potevo ricevere dal mondo selvaggio, favorito da un particolare punto di ascolto, non erano rappresentati da un’unica voce chiarificatrice, ma dall’insieme di tanti elementi che nel plasmarsi ed espandersi nel mio interno si coniugavano poi, probabilmente, in un profondo e tangibile significato. Intanto nel mio andare mi aspettava ora un nuovo personaggio della commedia. Appena superai di poco quella placida ansa, ad un centinaio di metri vidi un alce maschio immerso con le zampe nell’acqua e con il capo rivolto verso monte mentre masticava qualche leccornia che aveva carpito dal fondo melmoso delle acque. Fui molto circospetto, mi fermai, mi nascosi dietro un grosso abete e con pazienza spontanea mi misi ad ammirare la scena con tutto il corollario che si sviluppava d’intorno. Respiravo pian piano perché non avrei voluto rovinare il tutto per un mio modo di fare brusco e disarmonico. In fondo io in quel luogo mi sentivo, per lo meno in quella fase iniziale, come un ospite ed un amico e, un ospite che merita un tale appellativo, mantiene un atteggiamento estremamente rispettoso.
Pacatamente riguadagnai la via di ritorno e, rientrato nella capanna, mi accinsi a trascrivere sul quaderno gli ultimi eventi, nella forma più dettagliata possibile. Mentre scrivevo mi resi ancor più conto che la mia non era affatto una ricerca scientifica, ma semplicemente una ricerca che sgorgava dal più profondo dell’essere per non far scadere ogni nuova esperienza o emozione come un casellario monotematico in cui le conoscenze dirette venivano tradotte solo come eventi da classificare in una categoria scientifica con tutti i risvolti e le concatenazioni annesse. Gli interessi e gli aspetti geologici, etologici e biologici erano sempre stati al centro del mio lavoro e della mia vita, ma, in questa particolare situazione, essi erano fuori luogo. Mi venne a tal proposito una riflessione di Carl Gustav Jung che lessi molti anni addietro e che ora comprendevo al meglio: “Anche le piante mi interessavano, ma non scientificamente. Ero attratto da esse per un motivo che mi sfuggiva, e col sentimento che non dovessero essere estirpate e seccate: erano esseri viventi che avevano significato solo finché crescevano e fiorivano, un significato nascosto, segreto, uno dei pensieri di Dio. Dovevano essere considerate con reverenziale timore e contemplate con filosofica meraviglia. Ciò che poteva dire la biologia era interessante, ma non era l’essenziale” .
Trascorsi una settimana in quieta esistenza con brevi passeggiate, qualche pescata nel fiume e una serie di riflessioni che però non portarono a nulla di nuovo. Il vento bussava alla porta, il fiume procedeva tranquillo e le piante, nella loro maestosità, mi trasmettevano un senso di compagnia e di conforto, come se la loro presenza si insinuasse saldamente nel mio stato d’animo.
Il caldo di quei giorni era piacevole, ma sapevo che era effimero e nel volgere di poche ore poteva mutarsi in un improvviso baluginare di freddo, un freddo non solo dell’aria, ma anche dello spirito. Non nel senso letterale, ma puramente metaforico perché ognora mi chiedevo se il mio veleggiare nel mare della natura mi avrebbe mai portato da qualche parte o, meglio, se mi avesse donato un numero essenziale di ascolti al fine che io comprendessi tutti i miei ed i “nostri” errori umani.
Cambia la vita, sorge un nuovo giorno, trasuda il sentimento e il mutarsi del profondo essere trascolora come le foglie in autunno. Ed intanto i giorni stavano trascorrendo ed in effetti la stagione autunnale era ormai alle porte.
Stavo seduto sulla riva del fiume ed osservavo con analisi “microscopica” le rocce che in lontananza sovrastavano lo scenario di quel luogo. Erano rocce compatte che si facevano largo tra il fitto della vegetazione che pareva voler inglobare ogni elemento dentro il suo verde mantello. Alcuni grossi macigni di pietra mi dettero l’impressione che stessero come seduti ad osservare, proprio come stavo facendo io in quel momento, e subito la mia mente si pose in uno stato di “ascolto” per percepire da essi qualcosa che in apparenza si celava alla sensitività. Non so perché, ma mi sovvenne l’idea, o meglio la riflessione, che tutta la nostra vita osservava il mondo circostante sempre da un inamovibile punto di vista, senza mai cangiare il modo di guardare. Forse la stessa cosa vista da altra angolazione o addirittura alla rovescia ci avrebbe potuto consentire di approdare a nuove e forse entusiasmanti scoperte, ma solo se la nostra predisposizione interiore si fosse posta in modo critico e analista. Altrimenti tutto si sarebbe risolto in un vuoto simulacro dove ciò che appariva diverso era il solo frutto di un pensiero momentaneo che poco dopo sarebbe stato abbandonato per riporre in perfetto ordine il nostro cardine visivo e fintamente speculare.
Il giorno seguente
Il giorno seguente decisi di scrivere una lettera (e fu l’inizio di una lunga serie), non so a chi indirizzata, forse ad un fittizio anziano orso di nome Sigurd, comunque in ogni caso per il semplice piacere di farlo. Così annotai: “Caro Sigurd, ti ringrazio per la tua bella lettera che mi hai inviato. Le tue parole mi hanno portato la cara rimenbranza di te. Alla mia età la memoria corre spesso alla ricerca del tempo perduto, e tra i ricordi che più mi sono cari appare spesso l’assorta, placida mestizia, nei giorni in cui gli occhi della tua infanzia e quelli della mia giovinezza si volgevano attoniti al grande promontorio che appariva, improvviso, tra il verde degli alberi. Ahime’, quanti anni sono passati! Ma inutile è il rammarico per l’ineluttabile trascorrere del tempo, ne è possibile sottrarsi all’angoscia esistenziale perché ‘ducunt fata volentem, nolentem trahunt’.
Che posso dire di me?Ancora lamentazioni per la salute mentale che non è buona, e proprio ogni giorno apprensioni, tanto che il mio motto potrebbe essere ‘nulla dies sine die’……… Tanti affettuosi saluti, con l’occasione di vederti un giorno, un caldo abbraccio, Larsen”.
Rilessi ben bene la lettera, la misi in una busta, la firmai e la imbucai in una sorta di cassetta “metaforica” della posta ma che realmente mi ero costruito; anzi, ne avevo assemblato due: una per inviare ed una per ricevere. Chissà, forse speravo che un giorno un lupo, un orso, una lince o ad altro a cui scrivevo mi avesse lasciato qualche risposta!
L’ascolto nelle ore serali di un flebile e lontano ululato di un lupo lo presi come un interrogativo che esso mi poneva ed allora decisi di scrivere anche a lui una risposta: “Caro Taro, le stagioni volgono veloci e i nostri incontri si fanno sempre più rari. A me pare che la tua lontananza non sia soltanto fisica; sento che in te sono giustamente ormai recisi i legami della tua prima giovinezza. Son certo che le fattezze umane sono del tutto spente nella tua memoria ed estranei al tuo animo. Qui io rivivo le ipocrisie, le ambiguità e le corruttele del mio trascorso, ma mi accadono pure eventi straordinari in cui la tensione ideale, unico riscatto dell’anima, riappare, inattesa, come il guizzo di un lampo che spaventa e acceca un cucciolo; mi riferisco all’universale persecuzione che ha percorso il genere umano nei tuoi confronti. Non s’era mai assistito ad un accanimento tanto unanime: amici ed avversari ti hanno celebrato nell’oscurità, nella funesta tua esistenza, ed è singolare che una figura così carismatica ed imponente come la tua, ma nel contempo schiva, quasi anonima, si sia d’un tratto elevata al disopra del generale disinteresse, rivelando la vera statura della cattiveria dell’uomo in cui il rigore immorale s’era fatto stile di vita. Non che tu non ti sia nutrito di incertezze e dubbi e forse finanche di contraddizioni, ma ciò ti rende, oltre tutto, profondamente essere vivente e, per certi aspetti, sublime.
Ma fra tanti motivi di afflizione v’è pure una nota consolante, ed è la presa di coscienza di molti uomini di questo stravagante errore. Lo schiudersi di una nuova visione ha in sé qualcosa di miracoloso, ed appare l’unica confutazione possibile al pessimismo obbligatorio.
Con cuore, tuo Larsen”.
Firmai con diligenza la lettera e, come solito, “l’imbucai”.
“Tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia”. Quanti ricordi sono legati alle esperienze vitali, quante speranze, ma tutto, nella vita, è sotto il segno della caducità. Ma pur bandendo le tristezze esistenzialistiche, la vita si svolge con una incessante dialettica, e la sintesi è il divenire, che è in fondo quello che conta. Ma mi viene un dubbio: che avesse ragione chi sostiene che ogni realtà è attuale, per il quale essa è un cambiamento continuo senza substrato permanente, e senza direzione stabile?
Il mio punto di ascolto mi induceva inevitabilmente alla meditazione, forse a causa della speranza di trovare delle risposte ai miei interrogativi ed al mio viaggio. Io m’accorgevo che v’era un velo, una soffusa presenza di quell’appagamento dello spirito, che a tratti non era privo di una sorta di accidia. Ovunque si scorgeva fin’ora una mestizia dinanzi ai dilemmi della distruzione della madre terra. Anche qui, come sempre accade a chi si soggiace ad una meditazione costruttiva, si mescolano momenti e personaggi immaginari con luoghi ed elementi realmente vissuti.
Fantasticherie! Ma mi prendeva un interrogativo che mi ero sempre posto: perché l’uomo vuole estinguere ogni cosa, se stesso compreso? Non so e non mi interrogavo su altro quesito.
Il sole era ormai alto nel cielo
Il sole era ormai alto nel cielo e la neve progressivamente si ritraeva; la coltre ghiacciata dei laghi lasciava, anche se lentamente, man mano posto al libero fluire delle acque, dopo sette mesi di immota stasi invernale. Dai lembi del manto bianco della neve apparivano gli ininterrotti tappeti di mirtilli e i morbidi cuscini dei muschi. Di tanto in tanto, affioravano anche i candidi e vaporosi licheni, cibo essenziale per la renna che qui contava migliaia di capi.
Con il passare dei giorni, la neve, che in inverno aveva ricoperto ogni angolo possibile, si era ormai fortemente disciolta. Restavano ancora imbiancati solo irregolari tratti esposti a nord o perché oscurati da tratti di fitta foresta, la grande taiga dell’emisfero boreale.
Quell’anno effimere nevicate primaverili si erano sovrapposte alla vecchia neve rimasta ancora dopo il lungo inverno, ma per l'Orso bruno era giunto il momento di destarsi dal suo lungo sonno. Affiorava ormai in lui un nuovo ritmo e si era estinta la profonda letargia che lo aveva pervaso per molti mesi. Con il rigido clima lappone e con il costante penetrante buio inverno, l’Orso bruno non aveva mai abbandonato la tana da quando l'aveva occupata dall’ultimo frangente di novembre; essa, pur nella sua angusta estensione, manteneva un caldo e confortevole aspetto con un giaciglio di rami e d'erba, era nascosta ai piedi di un anfratto sotto il groviglio delle radici di un grosso abete caduto da tempo a terra perché schiantatosi qualche anno addietro a causa del forte carico di neve e per il vento che, con il suo improvviso impeto lo avevo spinto fino a farlo cadere.
Fuori, di giorno, il sole era già relativamente caldo per quelle latitudini, e le notti erano sempre più luminose e l’Orso volle uscire dalla tana.
Dopo un girovagare libero ed impreciso, l'orso rientrò nella sua tana e si adagiò nella lettiera del giaciglio invernale. Era un fatto istintivo tornare ancora al suo vecchio covo di svernamento, anche se l’evento progressivamente diveniva più rado poiché il suo muoversi lo portava in luoghi sempre più distanti per la ricerca urgente di nuovi alimenti che l'avanzare della primavera portava. Dopo un così lungo digiuno qualunque cosa commestibile era ben accetta.
Anche una grande femmina in quei giorni lasciò momentaneamente il suo ricovero dove aveva svernato. Ma non stava sola, a differenza di molti altri orsi, poiché nella morbida imbottitura del giaciglio, c'erano tre cuccioli: l'orsa li aveva partoriti verso la fine di gennaio, nudi e minuscoli. Ora erano alquanto cresciuti ed erano ricoperti di caratteristici peli grigiastri. All’interno della tana erano molto dinamici, ma non avevano ancora lo spirito e probabilmente la forza di uscire dalla tana. Sarebbe dovuta passare ancora qualche settimana prima che l'istinto li portasse a lasciare il conforto e la protezione della tana. In quel primo frangente l'Orsa non si avventurò verso lunghe distanze, limitandosi a scavare gli acervi di formica rossa ai piedi di vecchi pini li attorno per saziare la sua fame tanto che ora appariva smunta e palesemente rimpiccolita rispetto all’inizio dell’inverno.
La neve se ne era quasi del tutto andata da tempo
La neve se ne era quasi del tutto andata da tempo e, con l'avanzare della stagione, il sole si alzava sempre più nell'arco del cielo, le notti erano sempre più chiare, e i raggi aprivano la strada al verde delle nuove erbe. Al ritiro della neve riapparvero anche i frutti del mirtillo rosso dell’estate precedente, conservatisi sotto la bianca coltre. Essi erano un’ottima fonte di alimento per gli orsi usciti dalle tane. I frutti li trovava ovunque perché il morbido sottobosco della taiga era ricoperto, quasi senza soluzione di continuità, di questi succulenti doni oltre che di muschi e licheni.
L'Orso bruno lasciò la prima volta la sua tana ai primi di maggio. Poi, per diversi giorni, girovagò nei dintorni nutrendosi di qualche nuova erba affiorante.
L'Orso bruno devastava i grossi acervi di formica e brucava le erbe tenere ormai sempre più trionfanti. La temperatura si fece alquanto mite e col trascorrere dei giorni non tornò più alla tana dove aveva svernato. Si spostò verso ovest, tra i boschi ormai riempiti dal gorgheggio del canto degli uccelli, molti giunti dalle zone di svernamento del sud per scamparsi dal grande gelo invernale nordico, e, come sua indole innata, si approntò un ricovero per la bella stagione in un luogo selvaggio ombrato d'alberi secolari e novellame fitto di abete rosso, di betulla e di pino silvestre.
Seguiva il mutare delle stagioni come ogni essere la cui sopravvivenza sia legata alle risorse della terra, e con l'avanzare della primavera, cambiava quartiere secondo un rinnovato istinto.
La giornata era particolarmente calda per quelle latitudini. L'Orso bruno uscì dal bosco sopra Josajarvi, su una traccia di sentiero fatto dal passaggio frequente di renne ed alci; era diretto ai bordi del bosco, in un'ampia radura dove stava nascendo della nuova erba.
Le foreste di betulla rinverdivano progressivamente, in contrasto con l’ultima neve che persisteva ancora sui dolci tunturi della Lapponia finnica, l'Orso brucò nelle macchie verdi che apparivano tra le coltre d'erba secca della stagione passata, e rivoltò i sassi in cerca di piccoli animali che catturava con estrema prontezza di riflessi. A tratti prendeva a scavare per portare alla luce le bianche radici di alcune piante.
Un giorno l’indole solitaria dell’Orso bruno prese il sopravvento e cautamente si allontanò da quei luoghi dove erano presenti altri orsi. Solo i giovani restarono assieme come pure le femmine con i piccoli che, a quell'epoca, ancora tenevano al riparo nelle tane. Gli adulti avrebbero condotto vita raminga e solitaria fino alla tarda primavera/inizio estate, quando i sessi si sarebbero cercati per breve tempo, per accoppiarsi. Poi ancora la solitudine fino all'autunno; dopo, alcuni sarebbero tornati a riunirsi subito prima dell'inverno, in quegli stessi luoghi che avevano abbandonato in primavera.
In un bosco primigeneo di pini secolari, tra radure già verdi di nascenti epilobi ed intrichi d'alberelli di betulla e salicone, l'Orso bruno si fermò quando giunse ad un vecchio giaciglio ai piedi di un enorme macigno muschioso. Con forti colpi di zampa scalzò una parte dell'accumulo di foglie morte, e si adagiò a riposare. D’attorno invece primeggiava immota e silente la verdeggiante foresta della taiga.
Era l'inizio vero e proprio della primavera
Era l'inizio vero e proprio della primavera, quando a fine maggio il verde tenue delle nuove foglie delle betulle cominciava a tingere gli alberi di un colore smagliante che contrastava col verde dei pini e degli abeti rossi e col biancore degli ultimi nevai.
L'Orso bruno si aggirò rovistando con gli unghioni entro lo strato di terriccio, ma non trovò nulla di commestibile. Più tardi continuò a scendere spostandosi verso il selvaggio vallone di Juminkeko.
Nel vallone ebbe la sorpresa di incontrare un ricco stuolo di renne che brucavano avidamente i bianchi licheni, ma pur accorti della presenza dell’orso, lo ignorarono completamente cosa che anche lui fece istintivamente. In quel frangente il grande Orso bruno era intento a rastrellare un grosso acervo di formica rossa e poi, forse perché in parte sazio di insetti e delle loro larve, si allontanò da esso per pascolare brevemente in una piccola radura che si apriva a pochi metri nel fitto della foresta. Poco dopo, rientrato nell’ombrosa abetaia, si adagiò sotto un secolare pino silvestre, simbolo incontrastato delle piante arboree della taiga finnica.
Nell'immoto specchio del lago di Maaselanjärvi le fitte foreste di conifere si riflettevano come una frastagliata fascia scura dominata sullo sfondo dalla cima del Tunturieko. L'Orso bruno pascolava allora nei pressi di un ristagno d’acqua prospiciente ad una palude, dove una distesa di erbe selvatiche si era impiantata grazie all’umidità della zona.
Quando alle tre del mattino il sole nascente cominciò a specchiarsi sul grande lago, l'Orso bruno si allontanò verso la boscosa bassura di Serrakkj dove tra muschi odorosi si ergevano variopinti massi morenici vivamente colorati da numerose specie di licheni endolitici.
L'Orso bruno si fermò improvvisamente e si mise ad annusare in tutte le direzioni. Era odore di carne in putrefazione. Dalla radura il vento portava anche lo schiamazzare degli immancabili corvi imperiali. L'Orso bruno cambiò direzione al suo andare, per seguire quella particolare scia odorosa.
Sui bordi di una depressione, trovò i miseri resti di un alce ucciso probabilmente dai lupi qualche giorno prima. Attorno, sul fango, un reticolo di orme di lupi, volpi e di un “temibile” ghiottone.
L'Orso bruno si avvicinò ai pochi resti dell’alce tra uno svolazzare irrequieto di corvi; si mosse attorno come a cercare le parti migliori, anche se riuscì a strappare ben poca roba, poiché gli animali necrofagi che lo avevano preceduto si erano già accaparrati le parti migliori.
Quando cessò ogni interesse alimentare, prima di lasciare il luogo, raspò del terriccio sulla carcassa, cercando di mascherarne i resti, spinto da un istinto atavico che gli diceva di celarli contro la voracità di altre bestie. E questo era il fare di ogni orso, ogni volta che avevano a disposizione la carcassa di un animale.
Lasciò poi la zona per seguire un sentiero verso valle, ma dopo un tratto mutò idea, deviò e si diresse verso la base di una collina.
L'Orso bruno risalì quindi verso la cresta del Tunturieko in cui nel primo tratto il bosco era ancora fitto ed intricato a causa del novellame delle betulle e dei pioppi tremuli. Sentì più volte il muoversi di un branco di renne cui non rivolse alcun segno di interesse poiché il suo obiettivo era quello di ritrovare una tana che sapeva nascosta sotto l’ombra di pini silvestri.
Intanto l’autunno
Intanto l’autunno aveva preso il suo corso e, alle sensazioni particolari che nascono in questo frangente dell’anno, faceva eco il mutare sfavillante dei colori che tingevano, come pennellate d’artista, tutto l’ambiente circostante. Le betulle si accendevano d’oro, le paludi rosseggiavano ed ingiallivano, le altre latifoglie cangiavano in una tavolozza muliebre dal rosso all’ocra, e, in ogni istante, si pareva cogliere il mutare del tempo. Proprio la stagione autunnale aveva infatti più di ogni altro periodo dell’anno un qualcosa che ispirava al mutare dello spirito interiore.
Comunque a quel punto mi tornò alla mente il recente mese di maggio, quando arrivai. In particolare gli ultimi giorni del mese mi colpirono in modo significativo. “Furono giorni intensi, diffusi, silenti, giorni sognanti ricchi di contrasti e di melodie selvagge. Vissi subito, quasi per intero, il mondo della taiga e i suoi legittimi abitanti. Un albero abbattuto e sagacemente rosicchiato, canali nell’acqua, ammassi di rami, terra e tronchi, corridoi irregolari: la vita e le gesta del castoro. Un mondo improvviso ed affascinante sulle rive di un fiume cristallino. Tra gli intrecci del sottobosco della taiga, camminai con un misto di curiosità e di sorpresa. D’improvviso un rapido e rumoroso battito d’ali: il gallo forcello, poi una beccaccia, nella palude più in là un chiurlo maggiore e nel limpido lago una strolaga mezzana. Mi girai e a terra, dopo che ebbi riconquistato il sentiero più a monte, e mi imbattei in un escremento di orso bruno e poi in giganteschi acervi di formica. Quanta meraviglia in così breve tempo. E poi l’incessante compagnia dall’alto del cielo del corvo imperiale, il re del grande nord, un indomito ed imperturbabile uccello che ha sempre affascinato le culture e le mitologie nordiche tanto da essere considerato, anche da popolazioni umane non in contatto tra loro, l’artefice primario della creazione del mondo. Una credenza che il corvo imperiale dimostrava ognora con la sua destrezza e la sua eccezionale resistenza. Ogni volta che ascoltavo il verso di un corvo mi veniva sempre spontaneo salutarlo interiormente e spesse volte anche materialmente con il gesto della mano. In fondo “i re” meritano il giusto rispetto!
L’indomani mi spostai velocemente per altra via a poca distanza dalla capanna, sempre alternando la maestosa foresta di indomite betulle, di abeti rossi e di pini silvestri ad altri tratti aperti grazie alla presenza di laghi, paludi e di improvvise radure. Poi, rientrato di nuovo nella foresta, un altro bellissimo incontro: un alce maschio estremamente comico nel comportamento e nelle gesta della fuga. Un essere simpaticissimo, confidente e fortemente attraente. Poi, riprendendo il sentiero, rinvenni, un lungo tratto di escrementi freschi di gallo forcello, di martora e di lepre variabile. Poi il frullo di ali di un di francolino di monte, le tracce su fango di un ghiottone, il passaggio di un’aquila di mare e il leggiadro e silente volo di un allocco di Lapponia. Quei giorni in cui la luce non scompariva mai non potevano mancare gli effetti inebrianti dei contrasti tra il sereno e il biancore delle nubi, dei lunghi tramonti rossastri, dei mistici stati che genera il vapore crepuscolare che sale dai laghi, il fantastico riflesso della grande foresta sulla loro specchiante acqua, l’arrivo a tarda sera di un cigno selvatico......
Anche il ritorno alla semplice capanna che stavo riassettando dopo il lungo peregrinare, le cose assumevano ugualmente una grande rilevanza. Appariva tutto così bello che mi sembrava d’essere entrato in un mondo surreale. Erano momenti intensi anche perché conditi con il fantasticare della mente che mi faceva sentire appieno la vita che albergava in quei luoghi, lontano dalle effimere e meschine illusioni dell’uomo. Mi rigeneravo completamente, sentivo nel mio dentro respirare la vita, pulsare le emozioni completamente scevre dalle influenze della contemporaneità antropica. Sentivo veramente una vita diversa, per la prima volta, così diversa ed intensa che credo non abbia forma veramente descrittiva. Le luci del grande nord sempre limpide e lussureggianti avevano anch’esse la forza di generare una sorta di sublime abbandono alle proprie interiorità e alle dinamiche riflessioni......”.
I colori dell’autunno
I colori dell’autunno affascinano, come ho già accennato, più di ogni altro periodo dell’anno. La policromia rende tutto profondamente magico e dona, con le spruzzate dei variopinti colori, un paesaggio che sembra plasmarsi dalle mani di un artista che dipinge, con una certa opalescenza impressionista, il mondo selvaggio che lo racchiude.
L’autunno che, piano piano ci conduce al lungo e bianco inverno, sembra prenderci per mano guidandoci in un dedalo di sensazioni e di luci che non è possibile cogliere solo con la spinta della fantasia, ma soprattutto con la visiva partecipazione diretta.
Nell’autunno vedevo il cangiarsi graduale della vita che, abbandonata a se stessa, dipartiva per sospendersi in un etereo ed infinito misticismo. Così il mio animo cambiava anch’esso e trasferiva in se un messaggio di pace e di quiete interiore dove la speranza e l’armonia prendevano fortemente il sopravvento. L’ambiente in cui vivevo mi ricordava marcatamente il mutare delle cose e il divenire ognora della vita.
I colori velocemente cangianti ispiravano ad un indescrivibile senso di meraviglia e di fascino e la vita in tutto il suo magico splendore annunciava in una forma nuova il suo continuo rinnovarsi. Un inno sincero alla gioia.
Io credo che vivere il proprio tempo nella dimensione voluta, nello spirito della libera continuità della natura e della mente, ispiri ad un profondo senso di illimitato equilibrio, sia con se stessi che con tutto il mondo circostante. E ricordo che in ciascuna vita alberga sempre un punto di ascolto, un punto dove anche le cose diverse, pur mantenendo le loro peculiarità, si fondono continuamente in un un’unica dimensione.
I giorni trascorrevano alacremente mentre le ultime vestigia della stagione che i nativi americani chiamano estate “indiana” andavano dissolvendosi ed io, sempre più preso dal mio peregrinare, sapevo che gli esseri selvaggi che quotidianamente mi accompagnavano come fantasmi nel fitto della foresta, mi erano profondamente amici perché, in cuor mio, ne dividevo le grevi minacce che l’uomo contemporaneo spargeva su di loro.
A simbolo di questi misfatti non c’era “vittima” migliore: il lupo dei boschi. Quella misteriosa presenza vanescente che sembrava materializzarsi ad ogni soffio di vento ed ad ogni rumore del bosco. Forse era più valevole per le emozioni dello spirito immaginare quella presenza che, paradossalmente, vederla direttamente.
Quanta ricchezza regnava nello spirito in quella selvaggia natura. Quanto mistero albergava nelle impronte della lince, del ghiottone o dell’orso bruno. Come Aldo Leopold ebbe a scrivere, “la wilderness è una ricchezza che può solo diminuire ma mai aumentare” così l’anima dell’individuo conscio di questo fatto si arricchisce giorno dopo giorno grazie al perfetto unisono tra le stagioni umane e quelle della foresta.
Io vivevo a fondo quelle sensazioni anche perché mi ripetevo soventemente che bisognava “trovare sempre la pace con se stessi per illuminare il proprio cammino”.
Un giorno
Un giorno, come ormai era mio solito, poco dopo le prime luci dell’alba, feci una lunga escursione. Avevo infatti la necessità di meditare cammin facendo poiché era sempre vigile in me la profonda necessità di trovare in me quei reconditi misteri cui cercavo di dare risposta. Poi, essendo trascorse quasi quattro ore, mi rimisi in cammino a ritroso seguendo un altro sentiero sotto un cielo sereno, reso ancor più benigno da alcune velature lattiginose che a mezzogiorno andavano quasi ad adagiarsi sulla foresta di Noderland.
Mentre discendevo il sentiero che portava al fondovalle, volsi lo sguardo ai monti di levante e a quelli di ponente, ove scorsi, al limite superiore della vegetazione, la fulva colorazione dell’assorta quiete delle giornate autunnali allorché il giallo intenso delle betulle s'accendeva come oro sotto la tiepida vibrazione del sole.
La lunga discesa, iniziata poco prima, terminava nel punto in cui scoprii altre vecchie capanne, che si susseguivano l'un l'altra, quietamente allineate sul ciglio del tracciato; stupiva che su quella piccola aggregazione di case non aleggiasse la sensazione di precarietà e d’anonimato, ma si distendeva - al contrario - la coltre quasi palpabile di un’abitazione antica e ininterrotta.
La vista che s'apriva da quel punto, che pur non era prominente, spaziava ampiamente sui monti Karden e sull'impervia e tormentata mole del Krugel, dagli impressionanti balzi rocciosi.
Nel lasciare quelle immagini mi diressi verso settentrione, passando nel punto in cui il sentiero rimaneva stretto tra il colle di levante e quello di ponente, quasi che la valle volesse teatralmente accentuare in quel punto il largo respiro che si sarebbe aperto di lì a poco all'approssimarsi della piana, in parte paludosa, di Storland. Mentre oltrepassavo la breve strettoia incontrai una lunga serie di imponenti secolari abeti, che si ergevano con un tocco di schiva solitudine ed apparivano quasi severi nella neutra colorazione che il tempo aveva steso sui loro tronchi. Avevo appena finito di volgere l'attenzione a quell'attonito gruppo di alberi, quando la valle s'aprì all'improvviso innanzi al mio sguardo con una dimensione nuova e una luminosità intensa, cui si univa una sensazione di estasi che impregnava quello scenario teatralmente manifesto. Mentre percorrevo il sentiero, l’improvviso grido di un rapace notturno fiaccò il silenzio di quella particolare situazione, quasi ad annunciarmi quel profondo senso di misticismo e di mistero che pervadeva l’aria di quell’ambiente selvaggio. E in ogni dove v’era la gran foresta della taiga che quasi senza soluzione di continuità raggiungeva gli avamposti più settentrionali della regione. Probabilmente nessuna rilevante struttura umana mi separava dall’estremo nord, ma solamente natura selvaggia, inquieta, perenne ed essenzialmente dinamica. Il significato più profondo della wilderness si manifestava nella sua più vera espressione.
Ormai ero giunto nella mia capanna, accolto da una singolare commistione di silenzio e di precarietà che nelle ore crepuscolari è propria del vivere in solitudine quando si è immersi in una primordiale foresta. Era sopraggiunta infatti la sera e sotto la luce incerta della luna, a tratti velata od offuscata da dense nubi, le ombre degli alberi parevano rappresentarsi emblematicamente come in una sorta di scenario teatrale ed il gran lago, affiancato al letto del fiume, rifletteva sul suo candido specchio la fittezza e l’evanescenza della foresta, quest’immagine resa possibile, come detto, dalla presenza della luna.
Ogni volta che rientravo nella capanna, essa mi risultava sempre più accogliente grazie ai grossi e rustici tronchi di pino assemblati magistralmente tra loro; un tocco di fascino veniva dato poi dalla colorazione esterna degli stessi poiché avevano assunto nel tempo un ingrigimento naturale che consentiva una perfetta ambientazione con il luogo in cui erano collocati. La capanna poiché era posta leggermente sollevata grazie ad una collinetta, consentiva di osservare dalla finestra o dalla veranda buona parte dell’ambiente circostante con un leggero senso di dominanza. Questo posizionamento permetteva di intravedere dal versante sud, il lago e il fiume distanti poche centinaia di metri sebbene gli alti e fitti alberi ne celassero una gran parte alla vista. Internamente vi era praticamente un’unica stanza i cui piccoli ambienti erano creati solo in senso dispositivo, cioè lo scrittoio e la libreria ad un angolo, la stufa al centro, un tavolo per mangiare vicino ad una finestra e così via. Il profumo del legno resinoso era sempre presente come se quella semplice dimora fosse stata eretta da poco tempo. Era bastevole qualche ora di assenza per percepire istantaneamente quel delizioso distillato di aroma.
Sovrastato da un cielo sereno
Sovrastato da un cielo sereno che la giornata novembrina volgeva al grigio, i monti d’intorno s’innalzavano puri nel biancore della neve che ne copriva le cime. Guardando verso settentrione si scorgeva nitida la valle di Karden, mentre a mezzogiorno quella di Boden si nascondeva alla vista dietro una tenera velatura di azzurro. Il sole che sorgeva alle mie spalle andava man mano tingendo di rosso i monti di ponente, mentre l’ampia radura su cui mi affacciavo si abbandonava quietamente alla luce che andava ormai trionfando. Intanto cominciava a cadere la prima consistente neve e i laghi già ghiacciati facevano a tratti fremere le membra quando le spaccature superficiali che determinava il forte gelo producevano dei singolari e un po’sinistri schiocchi che nel silenzio della foresta irrompevano come una sorta di tonfo, tanto da far credere che provenissero direttamente dal profondo dei misteri della natura. Sul terreno la neve bianca ed immacolata donava uno scenario incantevole, tanto che alcune volte sentivo un certo “fastidio” nel calpestarla, mi sembrava che rompessi un magico incantesimo di bellezza. E mi tornava in mente una celebre frase del poeta finlandese Aaro Hellaakoski quando scrisse: “Tietä käyden tien on vanki, vapaa on vain umpihanki”.
Un gran silenzio sovrastava la capanna, ma esso veniva rotto in certe giornate dalla rabbiosa voce di un vento di nord-est. Era un vento che flagellava ogni cosa con raffiche impetuose tanto da piegare le cime degli alberi, fino a volte a schiantarli. Ululava, sibilava, a volte con accenti acuti, a volte con struggenti lamenti. Intanto nel cielo si scatenava una lotta di titani con il vento che precipitando con forza verso mezzogiorno faceva balenare una sorta di turbinio sulle cime dei monti dense di nubi e già sovraccariche di neve. Scorgevo in quel vento la misteriosa simbologia dello sviluppo delle sensazioni profonde e dei mutamenti dello spirito. Nel vento che sospingeva con impeto le nubi mi si raffigurava la forza della coscienza morale e dell’amore che mi portava verso un momento dialettico che si concludeva in antitesi nell’attonita e placida serenità di ascoltare l’ululato del lupo.........
Era giunto il freddo mese di gennaio
Era giunto il freddo mese di gennaio, un mese che con forza rimarca costantemente la durezza del clima nordico. Un mese che però ha in se un fascino che raramente lo spirito ne rimane estraneo. La limpida e frizzante aria dei giorni sereni, il giganteggiare degli alberi colmi di neve che incurvavano pesantemente le chiome tanto da trasformare le loro attonite sembianze. L’immota stasi della grande taiga dove sembrava che il tempo fosse sospeso. Il fragore della neve quando vi affondavano le racchette nelle lunghe escursioni. E, nelle notti serene senza luna, la volta celeste grazie al buio assoluto appariva in tutto il suo splendore per l’infinità di stelle che sembravano coprire ogni spazio disponibile ed allora, senza soluzione di continuità, scintillando donavano la compagnia allo spirito e allo sguardo affascinato che le osservava. Ma, d’improvviso, il grande nord regalava ancora una sua esclusiva meraviglia. Luci fluttuanti cangiando colore e mutando dinamicamente forma e posizione, nella notte stellata riempivano il grande schermo del cielo. Brividi di luce illuminavano i più reconditi recessi dell’anima che nel profondo si espandeva nel grande mistero della natura. Era l’aurora boreale, la magica e leggiadra fiaba dell’emisfero nordico, una fiaba che non raccontava una storia definita, ma delineava nella sua interezza, un indecifrabile messaggio di unione universale e ancor più il continuo divenire delle cose. Questa luce del nord che sin dal tardo autunno si manifestava, donava sempre meraviglia e novità. Ed infatti ogni qual volta assistevo a quel poetico scenario, per me era sempre la prima volta e non rappresentava mai una visione abitudinaria distaccatamente osservata perché sin troppe volte ammirata. ……..
Il mese di febbraio, freddo e, quell’anno particolarmente nevoso, si annunciava con giornate dense di nubi che scurivano quasi sin dalle prime ore del tardo mattino. Fu in uno di quei giorni che, intento ad osservare il diffuso grigiore che si intravedeva al di là dei vetri, uscito nel mezzo della tormenta, ascoltai improvvisamente, sia pure in forma attenuata, l’ululare di un branco di lupi. Il mondo selvaggio, o meglio, quel che restava di un mondo selvaggio, si stava manifestando in tutto il suo splendore.......
La mia agitazione raddoppiava di giorno in giorno; l’ululato dei lupi che avevo ascoltato si sovrapponeva esattamente alla mia anima e a volte appariva come un’unica essenza variegata da cui mi sentivo fortemente attratto. Praticamente una sorta di anima sopra un’anima, un legame che fu rafforzato da ciò che una volta colsi negli occhi di un lupo, emblematica raffigurazione, come avevo più volte rimarcato, dell’essenza della wilderness.
Questo stato mi rassicurava e mi induceva a fantasticare. Cercavo di immaginare quello che sarebbe potuto avvenire nell’imminente futuro; il pensiero della singolare, trina attenzione, mi procurava un’esaltazione che andava tuttavia a mescolarsi ad uno stato di vaghezza, poiché sentivo che la mia identità forse stava per compenetrarsi, almeno in parte, con quella della foresta, e fors’anche con tutto il suo mondo selvaggio.
Una sofferenza più sottile si generava poi dalla inestricabile sovrapposizione delle “anime” cangianti che non riuscivo più a separare, sì che quella singolare commistione mi appariva sempre più come una misteriosa malattia dello spirito. Accadeva anche che nel corso delle mie solitarie meditazioni mi dedicassi talvolta a mettere a confronto l’aspetto e l’animo mio con quello dei lupi; nell’uno vedevo quasi la materializzazione dell’alba trepida e incerta, nell’altro la raffigurazione della pienezza dei meriggi d’estate.
Intanto il periodo invernale con le poche ore di luce e il clima particolarmente inclemente, mi portarono a scrivere numerose lettere ai miei ignoti destinatari che, come sempre, riponevo nella cassetta della posta “in uscita”. Ripeto, ne scrissi molte, ma una, che con grande accuratezza la compilai, mi sembrò più eloquente, singolare e profonda di altre e fu scritta per il “tempo”. Ne riporto lo stralcio più significativo: “Caro tempo, ti scrivo la presente per farti presente che da quando le mie membra vivono in questo solatio luogo, ho ritrovato delle sensazioni che avevo perduto da tanti anni. Ho ritrovato il tempo dell’anima, ma anche il tempo materiale che in effetti non scorre mai. Il concetto del tempo è il prodotto del nostro sviluppo mentale cui collochiamo, o meglio incaselliamo, momenti o azioni secondo uno scandire artificioso e preciso che ci siamo costruiti secondo uno schema molto relativo. Io nel riflettere, o nello scrivere, sono ancora prigioniero di questo concetto, ma ciò non mi toglie la possibilità di comprenderne la sua caducità.........
Per meglio significarti questo mio pensiero, ti trascrivo e ti dedico una bellissima poesia che fu scritta da un giovane indiano:
‘A che cosa ci serve il tempo?’
Allora nei tempi antichi,
non ne avevamo mai bisogno.
Noi ci orientavamo secondo il sorgere
e il calar del sole.
Non dovevamo mai affrettarci.
Non avevamo mai bisogno di guardare l’orologio.
Non dovevamo essere al lavoro
ad una determinata ora.
Noi facevamo quello che doveva essere fatto,
quando per noi era opportuno.
Ma noi stavamo attenti a farlo,
prima che il giorno volgesse al termine.
Noi avevamo più tempo,
poiché il giorno era ancora intatto
Questa mia riflessione è dunque il frutto del trascorrere la propria esistenza in una vita appartata, fatta pure di quesiti e di ricerche, ma che mi aiuta effettivamente molto a vedere le cose sotto una diversa luce.......
Per concludere, al fine di donarti una comprensione migliore del mio stato d’animo, ti riporto le bellissime parole di un testo taoista che ben raccoglie, nella sua brevità, lo starsene per proprio conto:
In un piccolo regno con poca popolazione,
farei sì che gli strumenti per dieci e cento uomini non fossero adoperati.
Farei sì che al popolo calesse di morire
E che lontano non se ne andasse,
che pur avendo carri e navigli
non vi salisse,
che pur avendo armi e corazze
non le schierasse.
Farei sì che tornasse alle cordicelle annodate
e di esse si servisse,
che trovasse gustoso il suo cibo,
belle le sue vesti, comoda la sua dimora,
dilettevoli i suoi costumi.
Gli stati vicinori si vedrebbero l’un l’altro,
le voci dei galli e dei cani
si risponderebbero l’un l’altra,
ma i popoli giungerebbero alla morte per vecchiaia
senza aver commercio l’un con l’altro
Con il cuore in mano, Larsen”.
Fu con difficoltà che riuscii ad imbucarla vista la pienezza della cassetta. Poi, come ogni volta, con un fare quasi meccanico, aprivo l’altra, ma inesorabilmente era sempre vuota. Ma io continuavo a sperare in qualcosa......
Il clima si era palesemente mitigato
Il clima si era palesemente mitigato. La foresta era tornata viva e verde, tiepidi i raggi del sole sulle radure arricchite di policrome ed estese fioriture.
Quando l'Orsa lasciò quel luogo, verso le ore serali, per scendere a pascolare nelle radure, i tre cuccioli ebbero la tentazione di seguirla; cercarono di farlo, ma la paura dell'incognito li pervase a poche decine di metri dalla tana, poi a finire di spaventarli pensò l'Orsa, che voltatasi, rudemente li cacciò indietro soffiando irata verso di loro. I tre piccoli corsero nella tana e dal suo imbocco osservarono curiosi e timorosi l'andare della genitrice attraverso gli alberi, fino a che sparve; sentirono poi ancora per un poco il rumore dei suoi passi, poi tutto tacque. I tre cuccioli si ritirarono vagendo in fondo alla cavità, e si rannicchiarono a dormire, affiancati come d'abitudine. L'Orsa sarebbe rimasta in giro per molte ore.
In una giornata particolarmente tersa, l'Orso bruno si sollevò dal giaciglio provvisorio per raggiungere un ampio pascolo chiuso tra i colonnati di abete.
Il sole era ormai alto nel cielo e illuminava ogni parte scoperta della foresta e si infiltrava tra le fitte fronde degli alberi.
L’Orso bruno sentiva uno strano richiamo che lo spingeva a muoversi. L'estro amoroso primaverile lo spronava a cercare una compagna.
Aveva pascolato per buona parte della notte e catturato piccoli insetti sotto i sassi; poi il richiamo inconscio lo riprese, l'istinto di amare, come avviene per tutte le creature della terra, lo sconvolse nuovamente, facendo scemare in lui l'interesse per il cibo. Osservò come attonito la radura; si aggirò senza meta nell'erba alta e umida, fino a che sentì qualcosa nell'aria, qualcosa di indefinibile ma tanto chiaro per il suo istinto primitivo, e con decisione si addentrò nella foresta. Ma nei pressi di un suo giaciglio estivo si aggirava un altro orso, il che lo infastidiva non poco, vista l’indole solitaria e niente affatto sociale della specie. Questo non impediva che in determinati luoghi, luoghi per esempio ricchi di alimenti, più orsi si raccogliessero l’uno vicino all’altro con il solo intento di mangiare senza nessun legame di socialità. Anzi, delle volte si accendevano delle vere e proprie baruffe tra i maschi con soffi e “ruggiti” da far paura, combattendosi anche con estrema violenza, durante il periodo degli amori.
Sbucò dal bosco
Sbucò dal bosco dove gli ultimi alberi radi delimitavano la palude. Di là l'Orso bruno dominava tutta quella particolare zona. L'erba era folta e profumata, ogni specie era in fiore, in quel mese che iniziava l'estate, favorite dalle piogge della primavera che finiva. Ogni angolo manifestava il rigoglio della vita e le tonalità del verde intenso riempiva ogni spazio disponibile.
C'era una sorta di pace e di indecifrabile armonia; solo il brusio di milioni di zanzare rompeva il silenzio. A tratti, a colmare quel brusio interveniva anche il canto degli uccelli maschi che attiravano le femmine e alcuni delimitavano il proprio territorio. Eppure il grande Orso bruno sentiva la presenza di un altro Orso; l'istinto sessuale gli diceva che aveva trovato una femmina, anche se a lui non era palese. Annusò con insistenza l'aria, camminando nella palude fendendo l'erba bagnata. A tratti si fermava ed alzava il capo in alto annusando con sempre maggiore insistenza. Incontrò nell'erba che si appiattiva nella palude, le tracce del passaggio di un altro Orso, trovò escrementi e sentì odore di urina: era femmina. L'Orso bruno sbuffò con eccitazione nell'annusare le esalazioni, e la femmina apparve improvvisa là dove prima non c'era che uno stentato pino silvestre.
Più piccola del maschio e di colore più chiaro, spaventata, la femmina si sollevò ritta sulle zampe posteriori, grugnendo e soffiando anch'essa, a sua volta eccitata, ma dalla paura per la comparsa del grande maschio nero, fissandolo mentre camminava verso di lei. L'Orso bruno ora avanzava con passo lento, guardingo, il pelo che ondeggiava cangiante lungo il filo della schiena. La femmina si abbassò sulle quattro zampe, aggirò un tronco e si diresse verso di lui, ora più quieta. L'estro sessuale da qualche giorno aveva preso anche lei, e anche lei come l'Orso bruno cercava istintivamente un compagno. I due orsi si avvicinarono fino al contatto fisico e si annusarono l'un l'altro a lungo, ovunque, sul muso e poi per tutto il corpo, mentre lentamente l'eccitazione e la paura di entrambi si affievolì fino a placarsi.
Dopo l'incontro la femmina si allontanò nel bosco, perché il sole era ormai alto. Il maschio non l'abbandonò, né lei lo cacciò. Le notti che seguirono ormai sempre illuminate tornarono a pascolare nelle radure, e se la femmina ignorava il compagno questi non la lasciava mai, mangiucchiando qua e là, ma sempre all'erta ai movimenti di lei. Le si avvicinava spesso, le sfiorava i fianchi, fingeva di aggredirla facendo alternare momenti di eccitazione insostenibili durante i quali diveniva aggressivo e suscitava la sua ribellione violenta, a momenti di calma e quasi di indifferenza.
Vissero così per diversi giorni, spostandosi a volte nella silente e selvaggia foresta della taiga.
In una “notte” illuminata ormai a giorno, nella palude apparve un secondo maschio. Più piccolo e di colore biondastro. Si fermò annusando innanzi a sé, sentendo l'odore della femmina ma anche quello dell'altro maschio. L'Orso bruno non accettò quella presenza; col pelo irto sulla groppa e lo sguardo vigile, sbuffò e corse incontro al giovane intruso. Si scontrarono con violenza, irosi; le fauci mordevano il folto pelo strappandolo a grossi ciuffi, e le grandi zampe vibravano colpi sui fianchi e sul muso. Ferite sanguinanti si aprirono sulle parti più vulnerabili della testa, dove gli unghioni giungevano più facilmente alla pelle. Il frastuono della lotta annullò ogni altro segno di vita e ruppe violentemente la quieta della teorica notte. Anche la femmina d'Orso si spaventò, e si allontanò verso i margini della palude.
La lotta durò poco; il giovane maschio accettò subito la supremazia dell'altro e abbandonò il posto con una fuga veloce, tallonato dal grosso maschio vincitore ancora teso per l'eccitazione, superò la cortina degli alberi in un rovinare rumoroso di fogliame e se ne andò.
Il grande maschio nero fermò la sua corsa sul limitare della foresta, poi si voltò e tornò a correre, ma verso la femmina. Dopo la lotta lo assalì la bramosia sessuale. L'orsa lo accolse timorosa, ma accettò le sue effusioni per un desiderio istintivo di essere sfiorata, un desiderio sempre più vivo che aumentò col passare dei giorni. E il cibo perse interesse anche per lei in quel periodo.
Gli approcci del maschio divennero più insistenti. La femmina cominciò a non scacciarlo più con tanta frequenza; cominciò anche lei a mordergli le orecchie e il collo, a leccargli il muso, a lottare come un cucciolo con lui nell'erba di una radura asciutta e nel sottobosco. Poi una sera, poco prima che la leggiadra luminosità del cielo si attenuasse lentamente, la femmina si concesse all'Orso bruno; si concesse una volta, due volte e poi ancora e ancora nella notte, ormai completamente avvinta dall'estro sessuale.
Trascorsero così diversi giorni e altre notti; si accoppiarono altre volte, poi il loro eccitamento scemò velocemente, fino a cessare del tutto.
Quando il grande Orso bruno prese la via verso i boschi della Juminkea abbandonando la zona e la femmina, questa era ormai fecondata.
Un giornata relativamente calda
Una giornata relativamente calda si preannunciava con un'alba alle due di notte.
In un'ampia tana ubicata sotto le radici di un abete caduto, tre orsacchiotti giocavano in attesa della madre che girovagava lontano in cerca di cibo. Erano nati durante l'inverno, partoriti mentre all'esterno il bianco mantello invernale celava la tana sotto uno spesso strato di neve che aveva mutato completamente il volto delle foreste. I tre cuccioli erano cresciuti succhiando il latte dalle mammelle della madre, una grande orsa di vetusta età che, nella sua vita, aveva partorito tante volte.
Un istinto innato doveva presto spingere l'Orsa ad allontanare i piccoli dalla tana; un evento importante nella vita degli orsacchiotti, che li avrebbe un giorno portati verso la loro indipendenza dalla madre.
Quando l'Orsa tornò dal suo girovagare notturno sui pascoli dove aveva cercato radici e insetti, trovò i cuccioli che sempre più coraggiosi e spontaneamente si erano avventurati lontano dalla tana, rincorrendosi e aggrovigliandosi, accanendosi contro pianticelle di pino con i loro già temibili unghioni, salendo sugli alberi più piccoli e rotolando spensierati sui morbidi cuscini dei muschi del sottobosco.
All'avvicinarsi dell'Orsa che si muoveva nella foresta, i tre cuccioli che stavano lottando animatamente avvinghiati in una apparente furiosa lite, smisero di giocare e si intimorirono; subito arretrarono verso la tana, e vi si nascosero. Poi riconosciuto il passo della madre tornarono fuori e corsero verso la sua sagoma scura, fino a lambire le sue gambe con continui gemiti di contentezza.
L'Orsa li leccò entrambi sul muso e in altre parti del corpo, come ogni volta quando tornava, e i piccoli cercarono le mammelle per soddisfare la loro fame.
Quando l'Orsa spinse i cuccioli a seguirla, allontanandoli dalla tana dove erano nati, il sole da tempo scaldava l’aria. Si incamminò con passo lesto verso il Laisioki; sapeva che in quella stagione i lamponi e i mirtilli neri erano ormai maturi per essere mangiati.
I cuccioli, indecisi e intimoriti da quell'evento che non conoscevano, vagirono e dopo qualche decina di metri tornarono d'istinto alla sicurezza della tana come altre volte avevano fatto all'allontanarsi della genitrice; ma questa volta l'Orsa tornò anch'essa sui suoi passi e li cacciò con violenza verso il bosco. Poi si mosse più piano, ed essi la seguirono standogli quasi tra le gambe, spaventati da quell'esperienza e dal mondo nuovo che vedevano e che non era più quella visione immutabile che conoscevano attorno alla tana.
Attraversarono la fitta abetaia dove grandi alberi svettavano radi su una macchia fittissima di rinnovazione, non ancora abituati a quell'ambiente e ai lunghi spostamenti; i tre orsacchiotti più volte restarono indietro, spersi nell'intrico delle betulle e degli epilobi che con le eriche e i rododendri infittivano ancora più l'infinita marea di pianticelle di mirtillo, e l'Orsa paziente tornava sui suoi passi a rassicurarli con la sua presenza.
Oltre il crinale discesero in una piccola radura nel bosco, e là la foresta si aprì più rada d'alberi, grandi, e grigi per l'abbondanza dei licheni. Lì un tappeto di mirtilli rivestiva la lettiera e gli orsi si prostrarono ad assaporare i dolci frutti.
Trascorsa qualche ora l’Orsa si stava muovendo insieme ai suoi tre cuccioli nel fitto della vegetazione. Dopo aver a lungo bevuto ad una risorgiva, il piccolo drappello, si mosse in direzione del fiume Olkijoki, dove la madre sperava di poter catturare qualche pesce in una particolare restrizione del fiume a lei nota o, in ogni caso, a reperirne qualcuno morto depositato sulla riva o galleggiante in quelle acque poco profonde.
Qualche giorno dopo con un andare sicuro e deciso, raggiunse le placide acque del fiume Olkiljoki dove conosceva un posto in cui le acque scorrevano in uno stretto passaggio, un decina di metri al massimo e per di più la profondità era di soli una cinquantina di centimetri. Entrò in quel tratto di fiume e con una attenzione guardinga e mirata, sondava a pelo d’acqua ogni cosa che si muoveva. Il suo scopo era quello di carpire qualche trota, di cui il fiume abbondava. La sua calma e la sua pazienza lo premiarono dopo un mezz’ora quando con un fare estremamente dinamico ed estremamente rapido, con le fauci catturò una grossa trota che divorò in pochi minuti, poggiandosi su un grosso masso che affiorava dall’acqua. Poi si rimise in posizione, attese con pazienza e il successivo passaggio di due trote lo trovarono impreparato poiché ebbe la fatale indecisione su quale delle due scattare per la presa. Il tentativo andò quindi a vuoto. Rimase nell’acqua per ancora un’ora, ma poi si spazientì e riconquistò il bosco circostante dove, dopo una plateale scrollo, si adagiò ai piedi di una centenaria betulla. L'Orso bruno squarciò con gli unghioni un gigantesco acervo, scoprì un formicaio e leccò di lena ogni cosa, divorando le larve e le formiche che come impazzite correvano ovunque.
La notte artica luminiscente avanzava sulle dolce colline dei tunturi. All'alba tornò la quiete apparente. Quando il sole splendeva già alto da oriente l'Orso bruno smise di scavare il terreno e di smuovere i sassi e si allontanò nell'ombra della foresta.
La primavera era ormai vicina
La primavera era ormai vicina annunciata anche dal ritrarsi progressivo della neve. Nel cielo fattosi più luminoso, piccoli gruppi di nuvole di un bianco purissimo correvano veloci verso ponente; intanto sui declivi dei monti, ove le betulle rinfogliavano, si stendeva una tenera vibrazione di verde. Alitava a tratti un vento nuovo che aveva al suo interno un calore inquietante. In quei giorni l’indugiare dei tramonti tingeva le cime dei monti di un rosso intenso che prima di spegnersi mutava man mano nel viola.
Proprio in uno di quei meriggi m’ero incamminato lungo il sentiero ben evidente che, volgendo a settentrione, fiancheggiava le pendici dei monti di levante; seguivo la stradicciola assorto nei miei pensieri quando, nel mutare lo sguardo verso il fondo della valle, ove remote apparivano le acque del Sarekin che andavano sciogliendosi, scorsi le sembianze di una sfuggente lince che, al di là di un filare di alberi, si dirigeva lentamente verso un fiume secondario. Fu un’osservazione più unica che rara vista l’elusività di questa specie. Con una determinazione che pur non mi era consueta, ma con molta cautela, scavalcai un ammasso casuale di rocce che delimitava in quel tratto il sentiero e mi diressi a piccoli passi verso quel grosso “gatto selvatico” illuminato dall’ultima luce del tramonto.
Fu uno di quei momenti raramente concessi ai mortali, il momento in cui gli animi, nel compenetrarsi l’uno nell’altro, insieme annegano nel grande respiro della natura circostante, anche perché in quel caso la lince era per me una sorta di anello di congiunzione tra il selvatico e l’addomesticato, unico connubio che si confaceva a pieno con il mio limitato spirito di essere umano forse irreparabilmente allontanato nella sua profonda entità dal mondo autentico della natura indomita.
Nei giorni che seguirono
Nei giorni che seguirono ritornavano con insistenza alla mia memoria tutti quei fugaci momenti dell’incontro con i lupi e soprattutto con il loro ululato; ne analizzavo le pause, le titubanze, la vibrazione dei suoni, il colloquiare immaginario con gli sguardi fuggevoli, ma ricordavo soprattutto d’aver scorto negli occhi di un lupo, in singolare sintonia di quanto accadeva a me stesso, l’inconscia percezione della precarietà del momento. Cadevo poi in una sorta di angoscia quando mi soffermavo a raffrontare i dubbi che alitavano nello spirito, quando mi sforzavo di reintegrarmi, sia pure in forma relativa e umanoide, con il selvatico, la cui difficoltà spronava, come per una sorta di contrappasso, le mie incertezze.
Ma pur mi tumultuava nell’animo un’ansia febbrile, un’irrefrenabile desiderio di plasmare il qualche modo la realtà che mi circondava, quasi che ciò fosse la trasposizione del travaglio che mi coglieva quando innanzi a una sorta di tela immacolata della natura tendevo lo sguardo alla ricerca dell’assoluto, per approdare poi al ridimensionamento di me stesso, preso nella realtà dei miei limiti in parte compromessi.
Mi maceravo in tali pensieri quando, dopo qualche giorno, rividi fugacemente, sul bordo della foresta, il “fantasma” sfuggente di un lupo; lo incontrai sotto il verde cupo di immensi abeti, luogo ideale per raccogliere le vicende di questi ameni personaggi. Nella foresta poi sentivo il crepuscolo della convivenza solatia, tanto simile alla mia. L’eloquente silenzio di quella immensa natura, la smorta luce che filtrava dal fitto dei rami, l’aggirarsi circospetto del sibilo del vento, la pacata armonia degli eventi, netti e scanditi senza mai trasformarsi in situazioni di banalità, disponeva il mio animo ad una sorta di stato di quiete e di meditazione.
Ma l’incontro di quel giorno fu per me motivo di una particolare inquietudine, perché il lupo, evitò ogni contatto, anche il semplice sfuggente sguardo. Il lupo aveva confermato la sua indole elusiva in una creatura quasi “chiusa”, una specie di sfinge che volgeva la sua attenzione verso l’ignoto della foresta.
Nei giorni che seguirono cercai inutilmente di trovare una giustificazione al comportamento del lupo, seppure appariva giusto e sacrosanto; per tranquillizzarmi mi dicevo che forse l’ostentata indifferenza di quel selvatico fosse scaturita dalle sottili schermaglie tra l’uomo dominatore e distruttore e un essere perfettamente integrato in una unità universale fatta di un solo concreto elemento: l’olismo di tutte le cose esistenti.
Quel travaglio stava però per risolversi, perché, dopo qualche giorno, scorsi nuovamente un lupo, forse lo stesso di prima anche se questa volta ci incontrammo, senza volerlo, in un’ampia radura nel fitto del bosco.
Quel rinnovato stupore durò più di una ventina di minuti, fin quando, approssimandosi l’imbrunire, un colpo di scena tanto straordinario, quanto meno atteso pervase la situazione; mentre stavo nascosto tra gli alberi al margine di quell’area aperta ad osservare quel lupo, questi, come se spinto da una forza incontrollata ed ad esso estranea, si voltò, o per lo meno così fu la mia interpretazione, con il suo profondo sguardo verso la mia direzione tanto che riuscii con il binocolo ad incrociare direttamente i suoi occhi fieri ed imperscrutabili. In quei interminabili momenti l’impazienza del mio essere si dispose all’attesa, ma mai pochi istanti trascorsero con tanta lentezza. Finalmente il lupo volse il muso verso l’alto e cominciò ad ululare. Io rimasi attonito e paralizzato anche perché quel misterioso lupo che ululava sembrava farlo idealmente per me, per salutarmi, ma soprattutto per rimembrarmi, nella mia metafora interpretativa, lo spirito vero del selvaggio........
Un giorno presi a dipingere
Un giorno presi a dipingere un lupo anche se l’arte pittorica non era usuale per me. Ero infatti piuttosto limitato nella tecnica e nelle rifiniture, ma un piccolo “talento” forse mi apparteneva. Impiegai una quindicina di giorni per svilupparlo ed ultimarlo e, in una prima fase, forse per una sorta di distrazione, osservavo il dipinto con una certa superficialità. Poi d’improvviso cominciò a svelarmi un profondo significato, come se quella piccola opera fosse il frutto di altro autore: la figura del lupo era ritratta a dominio di una grande vallata riccamente boscata che s’apriva sul diffuso biancore del cielo. Il lupo era effigiato nell’atto di osservare attentamente gli elementi di quella articolata valle. Tuttavia dalla mestizia di quello sguardo che si perdeva in quegli ampi spazi, si capiva che una sorta di doloroso presentimento albergava in quel lupo, un presentimento di incombente minaccia per gli atti più cattivi perpetrati dall’uomo verso la sua specie e la natura tutta. Dal suo sguardo infatti sembrava palesarsi chiaramente questo “pensiero”. Non a caso la luce del dipinto andava a posarsi sull’espressione del fiero predatore con una vibrazione che si esaltava a confronto dei toni freddi che dominavano la restante parte della composizione; nella quieta ombra goduta nella semplice abitazione di quei lunghi meriggi estivi la solitaria luce del quadro sembrava vibrare di una propria sonorità, tanto forte era la sua prevalenza. A quel punto interiormente ero sempre più convinto che non fossi stato io l’artefice di quell’opera!
Dopo aver collocato il quadro, ormai analizzato con attenzione, in una parete libera della capanna, incominciai a trascorrere molto tempo nella contemplazione del dipinto, che esercitava su di me un’attenzione crescente; questa non proveniva tanto da una emozione di natura estetica, quando dal concreto smarrimento da cui fui preso quando mi parve di scoprire che la mia personalità s’era misteriosamente sdoppiata, per riapparire nel lupo effigiato nel dipinto. La straordinaria trasposizione mi sembrava opera di un bellissimo e sagace sortilegio operato da un chissà quale misterioso evento come se esso avesse in un certo qual modo, con un atto di magia, accentuato quella riflessione per far rigermogliare in quel vuoto simulacro, il richiamo del lupo selvaggio che in fondo alberga nell’animo di chiunque vuole riconnettersi con la madre terra. Capii ancor più di quando fossero penetranti quelle forti immagini ormai sublimate nell’unione profonda con il cuore della wilderness e in fondo anche con la pacatezza e saggezza dell’ascolto.
Il crepuscolo della sera
Il crepuscolo della sera del 7 luglio concluse un giorno movimentato ed affascinante. Nell’arco di solo sei, sette ore avevo avuto la fortuna di poter vedere direttamente alcuni dei più “illustri abitanti” che vivevano vicino al mio “eremo”.
Era tarda mattina quando decisi di compiere una breve escursione con il proposito di non allontanarmi eccessivamente dalla capanna. Giunto all’interno della fitta foresta dove un dolce declivio sembrava essere contenuto nel basso da un filare di grossi massi di granito riccamente adornati con licheni rossi e gialli, vidi raccolti, in posizione di riposo, tre lupi, ognuno coricato su un fianco. Loro non mi videro, né mi sentirono, poiché il flebile movimento dell’aria era a mio favore ed io ero posto ad almeno una cinquantina di metri. Fu grazie al mio potente cannocchiale che discernevo con sufficiente chiarezza le sagome dei lupi, ma il loro pressoché totale immobilismo non mi permise una visione nitida e ben definita. Attendevo con pazienza che prima o poi si rialzassero, il che mi avrebbe consentito una più precisa osservazione. Ma la stanchezza che durante l’immota attesa si fece sentire (quasi un paio d’ore circa), mi portò a distendermi per qualche minuto, e quei pochi istanti furono fatali. Infatti, quando al sentore di un esile fruscio mi rimisi in posizione di osservazione, la delusione fu totale. I lupi non c’erano più! Fu un momento di rabbia interiore che preferisco non soffermarmi nella descrizione! Presi la mia attrezzatura, caricai lo zaino e mi spostai felpatamente per circa un chilometro verso nord con la speranza di poterli ancora rivedere; ma fu tutto inutile. I lupi erano svaniti nel nulla. Mi sedetti a terra con il solo binocolo in mano per scrutare se si muovesse qualcosa in direzione di una fascia aperta ad un centinaio di metri da me. Fui fortunato! In quel momento, “forse per la legge della compensazione”, con la sua andatura un po’ altanelante stava passando un ghiottone, una specie rara e in genere molto elusiva, difficile da osservare. Attraversò la radura, si fermò per un istante nei pressi di una grossa pietra e poi ripiegò nella fitta pineta di confine e scomparve alla vista. Fui comunque molto soddisfatto dell’osservazione, perché sin’ora il 90% dei rilievi che avevo fatto intorno a questo effimero mustelide si erano conclusi esclusivamente con il rilevamento di piste nella neve, nel ghiaccio o sul fango, rilievi di per se bastevoli al mio spirito, ma l’osservazione diretta mi consentiva di mettere a fuoco meglio l’autore di quelle tracce.
A quel punto mi presi una pausa di riposo per sorseggiare una tazza di caffé caldo che avevo nel termos. Riposai per una ventina di minuti e poi mi rimisi in cammino, dirigendomi verso il fiume, lì molto vicino. Al fiume osservai sull’altra sponda la grossa tana di un castoro a me già nota da tempo. Più a valle un intreccio di tronchi abbattuti e ramaglie sigillavano una sua classica diga e tutt’intorno i monconi di tantissime betulle e ontani “abbattuti” nel corso del tempo da questo formidabile roditore. Ma pur se le mie osservazioni erano concentrate in quei dettagli, con la coda dell’occhio vidi un movimento a pelo d’acqua: era proprio lui, il caro castoro che con la bocca trasportava un ramo probabilmente da poco reciso. Fu bellissimo poterlo vedere così facilmente anche perché in precedenza non mi era quasi mai riuscito a farlo e, le poche volte, sempre al crepuscolo con luce molto attenuata. Si diresse con sicurezza verso la sua diga e con precisione chirurgica inserì nella già stretta rete di rami questo nuovo elemento. Poi girò repentinamente su se stesso, tornò per una ventina di metri nella medesima direzione del tragitto di andata percorrendo alcuni tratti anche sott’acqua per poi virare verso sinistra e approdare sulla sponda del placido fiume a una decina di metri dalla sua tana. Rimase sul bordo per qualche minuto poi raggiunse un alberello di betulla e cominciò a roderlo. Impiegò solo pochi minuti e la piantina venne giù. A quel punto non si interessò di essa, ma rientrato nell’acqua guadagnò, come costume, l’ingresso della sua tana da sott’acqua, tana che, come ho già scritto, in superficie era ben sigillata da fango accuratamente spalmato e ben compattato. Attesi una mezz’ora ma non registrai altro movimento. A quel punto se fossi stato organizzato per rimanere più a lungo lo avrei fatto, ma alcune faccende alla capanna mi chiamavano alla via di ritorno. Mi allontanai dal fiume e riguadagnai un vecchio sentiero ben battuto che conoscevo palmo a palmo. Nell’andare, ponendo sempre molta attenzione a ciò che calpestavo o a quello che sentivo d’intorno, a metà percorso attraversai un'ampia radura, a dir vero una palude, nel punto in cui il sentiero la lambisce sulla destra poiché lì il fondo era più duro. Mi soffermai qualche istante e, attirato da un incessante gracchiare di due corvi imperiali, volsi lo sguardo verso il cielo anche se alquanto ristretto a causa del circolo dei grossi alberi che si estendevano ai margini di quello spazio aperto, ma fu cosa gradita nel vedere il libero e armonioso veleggiare di un adulto di aquila reale, visione migliorata grazie all’ausilio del mio binocolo. Il rapace stava palesemente sfruttando una corrente di aria calda per guadagnare quota senza dover ricorrere al battito delle ali e spendere energia; poi però il suo fare fece aumentare il cerchio dei giri e i grossi alberi di pino silvestre mi celarono il rapace alla vista. Rimasi in osservazione e fui premiato - anche se solo per pochi istanti - qualche minuto dopo, poiché la possente aquila, probabilmente una femmina, riapparve alla mia vista (sempre “scortata” dai due corvi), ma in questa occasione più in alto e, diversamente da prima, nel classico volo “scivolato” che la portò in breve tempo in direzione nord scomparendo definitivamente dal mio binocolo. Quel fugace avvistamento attivò nel mio spirito tutte le rimembranze degli anni passati quando studiai costantemente la vita delle aquile e in pochi istanti la mia mente rappresentò a se stessa tutte le scene e le sensazioni che avevo provato per sì lungo tempo. Ora ero alle prese con la mia particolare ricerca, ma nel mio cuore, insieme ad essa c’era sempre un ripostiglio dedicato a quel formidabile rapace. Sapevo bene che l’aquila in quelle contrade aveva tre nidi di cui due su roccia ed uno su un grosso abete il cui cesto, collocato vicino al tronco poco prima della cima, raggiungeva uno spessore di almeno due metri. Intanto si stava facendo tardi e ripresi il cammino, ma un ultimo evento mi attendeva. A circa un chilometro dalla capanna il mio sguardo si posò su grosse orme di orso bruno che qualche ora prima era transitato in quel luogo, certamente dopo il mio passaggio della mattina quando avevo intrapreso la breve escursione. Poco oltre vi era un grosso escremento cui era possibile discernere con chiarezza il pelo di un mammifero che non identificai, probabilmente una carcassa che il plantigrado aveva trovato in qualche posto della foresta. La pista si dirigeva verso est, ma il crepuscolo ormai incipiente mi fece desistere e ripresi il mio andare verso la capanna, che raggiunsi dopo circa una ventina di minuti.
Rientrai euforico e soddisfatto. Quel giorno ero stato fortunato ed ero stato, per così dire, salutato dai miei nobili amici che armoniosamente davano vita a queste stupende contrade. Le orme dell’orso mi fecero immediatamente ricordare quanto scrisse Adolph Murie, la cui nota avevo utilizzata come incipit su un mio documento scientifico sull’orso che avevo scritto qualche anno addietro….. “Ricordo la prima impronta di orso che vidi in vita mia...... Tutto ciò che vedemmo fu un’impronta in una pozzanghera di fango. Ma l’impronta era un simbolo, ancora più poetico che il vedere lo stesso orso - un approccio delicato e profondo allo spirito dell’Alaska selvaggia. In qualunque momento l’impronta di un orso può creare un’emozione più forte che il vedere l’orso stesso, perché viene chiamata in gioco l’immaginazione. Ti metti a osservare accuratamente il paesaggio, aspettando di vederlo comparire a ogni momento, mentre l’attenzione si affina e si rinvigorisce. L’orso è da qualche parte e può essere dovunque. La zona si è improvvisamente vivificata, ha acquisito una qualità nuova e più ricca”.
Una riflessione bellissima che nella mia vita che stavo svolgendo nella taiga ebbi la fortuna di vivere tantissime volte, praticamente ogni volta che mi imbattevo nelle orme di un animale selvaggio. Fu infatti così per la lince, per il lupo, per la lontra, per l’alce e così via. La ricchezza che mi offrivano quei posti era sempre manifesta anche quando il dono era parzialmente celato.
Ma la cosa che mi risultava ancor più importante veniva dal fatto che - oltre agli indubbi episodi tangibili prodotti da quelle osservazioni faunistiche dirette - l’insieme di quegli eventi avrebbero arricchito enormemente il mio continuo “ascolto interiore” che, sommandosi l’un l’altro, svolgevano la loro inconfutabile ed ignara parte al fine di condurmi progressivamente verso la giusta “comprensione” cui la mia mente tendeva.
Nella capanna ravvivai la stufa e prima di dar corso ad alcuni lavoretti urgenti cui dovevo por mano, annotai sul quaderno il significato e gli eventi testé descritti.
Assistere ad una parata di corteggiamento
Assistere ad una parata di corteggiamento di gallo cedrone è veramente spettacolare e trasferisce a chi osserva un senso di spavalderia e di sicurezza, poiché così apparivano i modi di fare dei maschi di questo grosso tetraonide. Il periodo primaverile era iniziato e la neve stava poco alla volta ritirandosi, anche se in molti punti ve n’erano ancora parecchi centimetri. Stavo muovendomi con lo scopo di andare in un mio capanno di osservazione, poiché di sovente mi ci recavo per osservare i lupi. Mi trovavo ancora nel fitto della foresta quando, sulla destra, a poche decine di metri, mi venne di ascoltare un “chiacchiericcio” inusitato che non misi subito a fuoco poiché la mia mente era concentrata sul procedere verso il capanno. Mi fermai, mi spostai leggermente verso sinistra e abbassandomi sulle ginocchia, protetto da un grosso pino silvestre, puntai il binocolo verso una radura che si apriva di lì a poco. Era in atto una parata vera e propria di corteggiamento dei maschi di gallo cedrone. Ne riuscii a contare almeno sette e, focalizzandone uno in particolare, notai tutto il suo tipico e celebre modo di agire. Il capo ed il collo protesi verso l’alto, la barba arruffata, le ali un po’divaricate e la coda completamente aperta a ventaglio. Il soggetto era a terra, a differenza di un altro che si trovava più in alto posato su un ramo. Emetteva, come d’altronde gli altri, il caratteristico canto d’amore. Mi spostai leggermente per vedere se c’erano delle femmine ed infatti, sul lato ovest del bosco, un piccolo gruppo di esse, anche se con un procedere un po’ riluttante, si avvicinavano a quella particolare “arena”. Dalla letteratura ero a conoscenza che per l’accoppiamento risultava indispensabile l’eliminazione o per lo meno la riduzione dell’iniziale aggressività che poteva istaurarsi tra il maschio e la femmina. Infatti, grazie a numerose osservazioni fatte, si era visto che le femmine scelgono soprattutto quei maschi che adottano un comportamento di equilibrio tra quello dominante della parata a quello di sottomissione. Qui, nella grande taiga, la popolazione dell’urogallo era cospicua, a differenza di altri distretti ed infatti, a parte questo momento del corteggiamento, durante il mio soggiorno e soprattutto durante il mio peregrinare in svariati punti della foresta, galli cedroni, come anche di forcelli e d francolini di monte, ne avevo sempre incontrati in gran numero (oltre ai frequenti escrementi che trovavo un po’ dappertutto). Ovviamente fuori dal periodo riproduttivo, maschi e femmine trascorrevano vita ben separata e anche durante la fase riproduttiva era la sola femmina ad occuparsi delle uova e dei pulcini.
Rimasi in loco per almeno un’oretta, ma poiché il tragitto che dovevo percorrere era abbastanza lungo, a malincuore dovetti lasciare la zona anche perché il richiamo del “re della foresta” mi spingeva interiormente a soprassedere alle altre meraviglie che mi si offrivano. Comunque sapevo che quando non ero impegnato con i lupi, avevo tutto il tempo per altre casuali o mirate osservazioni.
Infatti, era in mia previsione che la settimana successiva mi appostassi, nella giusta distanza, verso una tana di castoro, per osservare con meticolosa attenzione, tutto l’ingente lavoro di questo formidabile “ingegnere idraulico-forestale”. E poi mi attendeva anche un bel nido di falco pescatore cui tenevo in particolar modo al fine di studiare tutte le salienti fasi della sua incredibile tecnica di caccia in acqua. Ad una coppia di aquila reale avrei infine dedicato almeno una decina di giorni fermandomi in loco con la mia tenda; questo, non solo per osservarne il procedere della loro vita selvatica, ma anche per rimembrare i miei anni giovanili cui tante stagioni dedicai a questo grande rapace e finanche la tesi della mia laurea.
Il resto delle osservazioni, vista la ricchezza faunistica delle zone in cui mi muovevo, sarebbero venute spontaneamente da sole.
Un nuovo amico
Un nuovo amico arricchì la mia piacevole solitudine nella mia capanna. Si trattava di un bellissimo esemplare di Allocco di Lapponia, il grande gufo grigio, che veniva molto spesso in pieno giorno a posarsi sopra un trespolo che avevo proprio di fronte alla finestra dell’angolo cucina. Stava lì per molte ore ed io lo osservavo con ammirazione e meraviglia, poiché non si limitava a starsene in quieto riposo sul posatoio, ma soventemente si gettava a capofitto a terra per carpire le sue prede preferite: arvicole, topi, lemming di foresta. E’ pur vero che il luogo era facilitato dalla presenza dei micromammiferi poiché a terra vi erano molti briciole che cadevano giù da una limitrofa mangiatoia che da tempo avevo predisposto per alimentare, soprattutto durante il periodo invernale, i piccoli uccelli della taiga. Kalevi (questo è il nome che diedi all’allocco) non era affatto interessato all’andirivieni degli uccelli, solo di tanto in tanto si limitava ad osservali per poi, subito dopo, concentrarsi verso terra per scovare, con il suo formidabile udito, le sue prede. Non di rado passava persino la notte sul suo posatoio.
Nei primi giorni non avevo il coraggio di uscire dalla capanna per non mandarlo via ed attendevo che lui se ne andasse spontaneamente. Ma poiché la frequentazione divenne tutt’altro che sporadica, alla fine decisi di uscire ugualmente dal retro della casa e, con passo felpato, camminavo a debita distanza, e il caro Kalevi pur guardandomi incuriosito non andava via. Trascorse così il tempo, ma un giorno ci fu una grande e gradita sorpresa. Kalevi stavo sul suo posatoio, mentre un leggero nevischio alimentato da un flebile vento arricchiva la scena rendendola quasi fiabesca. A quel punto mi decisi. Calzai gli stivali, uscii delicatamente dalla porta principale e, sempre con un fare estremamente calmo, mi avvicinai a piccoli passi verso di lui. Pensai subito che sarebbe volato via, ma ciò non avvenne e, mentre il vento muoveva le sue soffice piume, un passo dopo l’altro mi portò a solo cinque metri da lui. Ci fissammo negli occhi, poi Kalevi si scrollò dalla neve che ora cadeva più copiosamente e l’unico gesto che fece fu quello di preparasi bene con le zampe, forse pronto per fuggire. Io restai fermo ed infatti il leggiadro allocco rimase a guardarmi. I suoi occhi sembravano riflettere un senso di bontà e di fiducia nei miei confronti, sperando in cuor mio che quella sensazione fosse realmente sentita dal rapace. Quei pochi istanti mi sembrarono un’eternità, poi, sempre lentamente, tornai indietro e con il cuore gonfio di gioia e di stupore rientrai delicatamente nella capanna. Sembrava proprio che Kalevi avesse accettato la mia presenza tanto che nella mia mente pensai ad una sorta di metempsicosi. Da quel giorno, quando il soffice rapace era nella capanna, io uscivo tranquillamente per le mie incombenze (prendere la legna, sistemare qualcosa, ecc.) e lui, pur osservandomi attentamente, rimaneva sul suo ormai “nobilitato” posatoio. Quando si diviene, sia pur simbolicamente, amico con un essere selvatico, lo spirito della vita e le luci dell’anima sembrano arricchirsi di un qualcosa di indefinito ma che più o meno ben rappresenta “la libera continuità della natura selvaggia”. Una situazione del genere non l’avrei mai immaginata, ed in cuor mio ringraziavo i doni che la natura ci offre così generosamente. Nel tempo, anche quando Kalevi era assente per parecchi giorni, in quasi ogni momento guardavo il posatoio nella sottintesa speranza di vederlo presente o sopraggiungere all’improvviso. Una altro significativo ascolto si aggiungeva alla mia ricerca.
Le osservazioni sul comportamento del grande gufo grigio mi ricordò le parole che un giorno un mio amico mi disse: “……… Ogni specie vivente, che sia aquila, lupo, lontra, alce, ecc. pur nella loro totale diversità di vivere, si trovano sempre in perfetto unisono con la natura, sono un’unica cosa e mai, dico mai si sognerebbero di vedere il mondo circostante come qualcosa di disgiunto, come altro da sé. Noi uomini invece abbiamo voluto con inusitata determinazione scindere le cose, distinguerle ben bene e di conseguenza abbiamo creato un netto dualismo, del tutto infondato da qualunque lato lo si guardi: l’uomo con la sua vita da una parte e la natura ben distanziata e quasi aliena dall’altra. Questa distinzione è stata le fondamenta dell’attuale insanabile dissidio che vede l’uomo dominatore assoluto che distrugge integralmente un regno cui anche lui ne faceva parte a pieno titolo. E’ l’unico caso di un figlio che uccide quasi ancor prima di nascere sua madre!”. Parole bellissime e tristissime, ma vere che penetravano sempre nel più profondo di me stesso e mi confermavano per l’ennesima volta il vicolo cieco che stavamo percorrendo noi umani.
Quella figura di lupo
Quella figura di lupo vanescente ed enigmatica che, durante il mio peregrinare all’interno della foresta qualche tempo prima, avevo potuto improvvisamente e per un solo istante osservare, s’era impressa con tanta inconsueta forza nella mia mente da procurarmi un’inconfessata agitazione dello spirito. Per lungo tempo i miei pensieri si volgevano ancora a quella fugace apparizione con una singolare mescolanza di sentimento e di compiacimento, tanto che per accentuare quell’improvvisa sensazione una mattina sedetti allo scrittoio; ma indugiai a lungo prima di scrivere o leggere qualcosa. Ero tentato di por mano ad un bellissimo libro sui lupi perché mi parve che leggendo qualche passo anche preso a caso avrei portato ancora più a nudo l’emozione che volevo intensamente esaltare. Le parole del libro, che alla fine decisi di scorrere un po’, si “alzarono” a grado a grado, e si diffusero nella mia mente tanto da portarmi ad una sorta di vera e propria fantasticheria nel mondo selvaggio. La mia positiva tensione andava ormai scaricandosi sulla lettura da cui trassi uno stato di sereno abbandono che però mi portò contemporaneamente alla soffusa immagine del lupo tanto che, a tratti, percepivo una sensazione di sospensione e di totale trasporto. Eppure l’avevo osservato solo per pochi istanti. Sentivo però che qualcosa di speciale si nascondeva in quell’essere libero e fiero forse perché era totalmente scevro dalle mediocrità umane.....
Il giorno seguente, raccolto nella capanna vicino alla calda stufa, ero assorto nuovamente nella lettura, quando lentamente presi sonno. Nel sogno che ne seguì….. “udii risuonare discretamente il battacchio dell’uscio. Nell’aprire scorsi la figura di un uomo, un uomo che rispecchiava nel suo volto una vita profondamente vissuta tra le silenti selve del nord dove lui era nato e dove aveva sviluppato, sicuramente sin dalla giovane età, un’incredibile abilità a vivere nella foresta e a conoscere tutti i suoi selvaggi abitanti; alle sue spalle, un po’ coperto, il suo fedele cane. Quando avanzarono nel vano d’ingresso già immerso nella penombra, la figura “del mezzo lupo” mi apparve ancora indistinta, ma non tanto da impedirmi di notare nel suo atteggiamento una esitazione che pareva accentuare in quell’essere una sorta di atavica selvaticità. Mentre entravamo nella stanza illuminata dai tenui ed incerti bagliori del “poco” sole, la figura di dell’uomo parve accendersi nell’improvviso riverbero della luce, in consonanza con la sua decisa personalità.
Contrariamente alla luce che andava declinando, dopo un sincero saluto di benvenuto la conversazione con quella persona si sviluppò rapidamente, anche se improvvisi silenzi interrompevano l’armonia del nostro dire, ma quei silenzi - lungi dal generare imbarazzo - mostravano di comporre in un unisono l’ipotetico pensiero dell’anziano uomo con quello mio, come se vibrassimo in perfetta consonanza con l’incipiente crepuscolo, anche se ci eravamo appena conosciuti. Intanto il cane si era completamente coricato forse perché un po’ stanco, ma manteneva sempre una certa attenzione.
L’uomo ruppe alfine il silenzio, ma solo per ricordarmi che la secolare foresta che ci circondava aveva in sé anche qualcos’altro che la semplice bellezza “tecnica” esteriore. Io, che a quel punto partecipavo attivamente alla conversazione constatando le grandi conoscenze dell’uomo e la sua estrema praticità, trasalii nel mio dire, contribuendo ad elevare il discorso verso l’infinito mondo della natura selvaggia ed incorrotta, di cui l’uomo era ovviamente fortemente partecipe…….
Rotti al fine gli indugi, accompagnai l’amico e il suo fedele amico all’uscio della capanna, ove ci salutammo in un eloquente silenzio. Poco dopo aver percorso qualche metro, l’uomo improvvisamente si rigirò verso di me e mi disse sommessamente: sappi che molto spesso gli orsi o i lupi non si vedono e non si sentono, ma ugualmente li si vivono interiormente perché essi sono come il vento: non lo si può vedere, ma lo si può sempre percepire. Un giorno comprenderai spontaneamente il metaforico e reale significato della percezione del vento. Vedi, alcune cose non possono essere apprese direttamente, perché gli elementi fondamentali della natura, che siano gli orsi o qualsiasi altro evento, in fondo non si esprimono palesemente come uno crede. Occorre cogliere il momento giusto per andare un po’ più in là, delle nostre materiali conoscenze dirette al fine di entrare, sia pur di poco e fors’anche per breve tempo, all’interno dello spirito del mondo selvaggio”……..
Di soprassalto mi svegliai e rimasi per qualche istante con la mente concentrata su quell’evento onirico che improvvisamente si era manifestato all’interno del mio mondo solitario. Un piccolo evento, ma fortemente significativo.
Il sole era alto sull’orizzonte
Il sole era alto sull'orizzonte, infuocato nel pieno dell’estate, e l'Orso bruno riposava nell'ombra delle abetaie.
La simbolica notte artica era da tempo giunta, rimanendo relativamente calda. Solo allora l'Orso bruno si alzò dal giaciglio, si stirò le membra irrigidite, mosse alcuni passi sulla zona aperta del pascolo e annusò l’aria. Poi si spostò seguendo un evidente sentiero. Nel cuore della notte, anche se piena di luce, era in vista di un gruppo di renne che non si accorsero della sua venuta.
L'Orso bruno si avventò contro di loro e ne atterrò alcune menando zampate nella mischia; ne afferrò poi una di piccole dimensioni e si ritrasse, sempre infierendo colpi d'unghioni attorno per farsi strada tra la fuga delle restanti renne. Si mosse rapidamente, sempre trascinando la preda, in direzione del bosco.
Quella “notte” l'Orso bruno si fermò nel fitto dei pini silvestri e, indisturbato, si mise a mangiare le carni del suo bottino.
L’Orso bruno era un maschio anziano ed aveva una corporatura superba che raggiungeva quasi i tre quintali di peso. Il suo passare nelle silenti foreste del grande nord finlandese raramente era silenzioso, tanto che il frusciare del novellame che infittiva il sottobosco o delle eriche secche, spesso si avvertiva a qualche decina di metri e poi, il suo soffiare, quando qualcosa lo turbava, intimoriva non poco gli animali che si trovavano al momento nei suoi paraggi. In genere le renne o gli alci, quando avvertivano la sua presenza, si defilavano repentinamente, mentre a volte, quando lo scorgevano bocconi intento a rimpizzarsi di mirtilli, lo ignoravano quasi del tutto. Poi qualcosa lo attrasse: un fetido odore che emanava una carcassa di renna. Il grande Orso bruno si approssimò alla zona del pasto, ma trovò un famelico ghiottone che con un fare estremamente aggressivo portò l’orso a desistere ed ad attendere che lo scaltro mustelide se ne fosse andato per carpire qualche resto che ancora rimaneva della carcassa.
Quando invece era lui il primo ad imbattersi in una carogna putrescente, soleva a volte scuoiarla quasi per intero, seguendo un suo atavico istinto. Si riempiva allora di carne a più non posso e in quelle circostanze le sue feci non erano come solito “profumate”, ma emanavano un pessimo odore tipico delle fatte dei carnivori veri e propri. Se invece il suo cibo erano i mirtilli o altri vegetali in erba, il caratteristico odore poteva definirsi gentile e nel contempo penetrante, ma mai fastidioso. Lo scuoiamento che l’orso effettuava alle carcasse nella maggior parte delle volte era così preciso che raramente riduceva la pelle in brandelli. Quello dello scuoiamento era un segno tipico “dell’utilizzo” di un orso su una carcassa integra.
L’Orso bruno nel pieno dell’estate stava un giorno pascolando in una radura nel mezzo della grande foresta di Palonen, ma l’erba era ben matura e, poiché diviene ricca di cellulosa, l’Orso sapeva che è molto meno digeribile ed allora dopo qualche altro boccone, si diresse verso l’intrico del bosco per cercare ancora una volta i frutti dei mirtilli rossi e neri o raspare sotto le ceppaie per cibarsi dei numerosi animaletti che in esse si celavano. Tuttavia l’estensione del tappeto di mirtilli era praticamente senza soluzione di continuità e quella situazione era ottimale per l’alimentazione del grosso plantigrado.
Nel gran chiarore del giorno
Nel gran chiarore del giorno, l'Orsa si mise in movimento seguita dal trotterellare dei tre cuccioli oramai quasi indipendenti. Attraversò i pascoli e le paludi del luogo sino ad entrare nel bosco.
Non tardò molto e coricatisi sui giacigli, si presero uno dei tanto consueti momenti di riposo. In quella pace solo le zanzare ronzavano in continuazione infastidendo non poco gli orsi, ma a quelle latitudini in quel periodo dell’anno, questi minuscoli insetti erano un vero e proprio flagello per tutti gli animali. A volte le renne cercavano sollievo addossandosi entro piccole depressioni dove rimanevano dei piccoli nevai che tenevano lontane le micidiali zanzare.
In quei giorni l'Orso bruno sentì che era giunto il momento di muoversi. Andava deciso, nel fitto della foresta per cibarsi di mirtilli neri. Era una zona particolarmente ricca ed anche altri orsi si radunarono nei pressi. Tra banchetti e riposi restarono in quei luoghi per diversi giorni, poi ognuno prese la sua strada. Gli orsi non sono animali sociali e quando sono a strette vicinanze, avvertono un qualcosa di fastidioso. Infatti, qualche giorno dopo, l’Orso bruno seguendo una pista di sentiero ben marcata, raggiunse un pianoro dove crescevano alte piante di pino silvestre, di betulla ed alberi di salicone.
L'Orso bruno annusò insistente le cortecce dei salici. Erano già stati lì altri orsi quella stagione, soprattutto in primavera. I tronchi erano feriti da morsi e colpi di unghioni. L'animale sentì istintivamente crescere una furia incontenibile dentro di sé, e la scatenò contro uno degli alberi. Si sollevò in piedi e gli unghioni scesero a scortecciare in lunghe strisce il tronco; i denti morsero con furia incidendolo in più punti, e ad ogni assalto la furia sembrò accrescersi.
Presto gli unghioni sbiancarono il tronco per tutta la sua lunghezza, e quando l'Orso bruno fece forza contro la chioma col suo peso questa si schiantò spezzando l'albero là dove i denti lo avevano inciso più profondamente. Il rumore dello schianto sembrò scatenare ancora ulteriormente la sua ira insensata ed istintiva, ed il fremito dei suoi muscoli si accentuò; come brontolii profondi le urla e i soffi dell'Orso bruno si udirono più alti oltre la cortina degli alberi. Presto la chioma del salicone non fu altro che un ammasso di ramoscelli spezzettati, sparsi intorno assieme alle strisce della corteccia e alle nitide schegge del legno: e il tronco spiccò bianco latteo contro il brunastro dei pini della foresta.
Improvvisa come era iniziata, poi la furia dell'Orso bruno cessò, e l'animale lasciò il pianoro. La sua figura si confuse tra gli alberi, verso i cespuglieti del ginepro nelle radure più basse della valle.
Lontano si sentiva il brontolio profondo di un tuono, mentre le nubi si facevano sempre più nere e il vento aumentava la sua forza. L'Orso bruno sentiva l'avvicinarsi del temporale nell'odore dell'aria e gli animali sembravano attendere rispettosi che si compisse un rito.
E il rito si compì col fragore di una cataratta, tanto violento quanto breve in quel mondo dove il tempo non aveva senso.
Quando ritornò la quiete l'Orso bruno si sollevò dal sua giaciglio tra il novellame e si sbatte vigorosamente i fianchi per scrollarsi di dosso l'acqua che si era infiltrata nella pelliccia, poi si incamminò in silenzio nella lettiera del sottobosco inzuppata e morbida, della foresta primigenia di Jarnioki, dove aveva approntato la sua tana invernale tra un albero cavo e un grosso formicaio.
Nelle radure che si aprivano
Nelle radure che si aprivano nell’annosa foresta boreale, l'Orsa cominciò ad frantumare le ceppaie putrescenti cercando i piccoli animali che vivono a contatto col suolo. Gli orsacchiotti la imitavano, ma più spesso cercavano i saporiti frutti selvatici dei mirtilli e dei lamponi, così facilmente pronti all’uso.
A giorno pieno l'Orsa non si ritirò nell'ombra della foresta, ma proseguì la sua ricerca di cibo. Risalì la valle per raggiungere una radura al limite alto del bosco, in quel tratto fortemente ondulato.
L'Orsa giunse al margine di quella zona prativa che si apriva lasciando intravedere uno sfondo di colline selvagge, e si fermò sospettosa, prima di inoltrarsi con i cuccioli allo scoperto. La presenza di qualche maschio poteva sempre essere una possibilità.
L'Orsa sentì la quiete del luogo e solo nel tardo pomeriggio lo lasciarono, mentre la luce del sole trionfava in ogni parte.
Quando girovagava con i suoi cuccioli dell’anno nel fitto della taiga, l’Orsa delle volte doveva fermare il suo deambulare per attendere che i giovani orsi scendessero dagli alberi, che per loro era un divertimento e un gioco vero e proprio. A volte, pur sbuffando fortemente mentre attendeva, si grattava il peloso dorso sui tronchi di betulla, mentre a volte evitava quelli di pino per non impregniarsi della resina scolante. Ma ciò non era affatto una regola fissa, tanto che non mancavano le occasioni di grogiolarsi e godersi il suo sfregamento su grossi pini o abeti la cui resina imbrigliava facilmente i lunghi peli setolosi del plantigrado.
Oscuro fantasma
Oscuro fantasma che camminava con lentezza, l'Orso bruno stava risalendo le pendici verso i pascoli dell’articolata collina di Risitunturi.
Dopo circa un’ora l'Orso bruno giunse al valico. Si era fermato più volte lungo la salita a scovare insetti sotto i sassi della vasta pietraia che costellava quei pascoli, ma il desiderio di altro cibo lo stimolò a continuare a cercare.
Sui pianori della cresta si diresse verso oriente, dove sapeva di poter trovare ancora dell'erba verde e appetitosa grazie alla pioggia non rara che di sovente veniva giù. Dopo un fare di un paio d’ore, l’Orso bruno si riposò e solo sul tardi della giornata, lasciò il giaciglio. Mentre la nebbia stava prendendo il sopravvento sui raggi tiepidi del sole, l'Orso seguì la pista verso Ilajoki, fermandosi solo a mangiare le rosse bacche del mirtillo maturo per penetrare subito dopo nel bosco. Il plantigrado discese lungo una traccia di sentiero e sbucò in una palude, anche se una nebbiolina oscurava un po’ il paesaggio.
L'Orso bruno si spostò in alcune radure circostanti ricche di cespugli e, quasi d’improvviso comparve come dal nulla un giovane orso. Alla sua vista l'Orso bruno sbuffò insospettito e si sollevò sulle zampe posteriori per annusare ed osservare meglio l'intruso, e solamente quando si fu rassicurato tornò ad abbassarsi per addentrarsi anch'esso nella macchia, indifferente al compagno.
I due orsi si aggirarono in un’ampia radura satollandosi delle piccole bacche di mirtillo. Le coglievano abbassandosi a terra per portare i gruppi di frutti alle loro fauci.
Nella tarda mattinata abbandonarono il luogo ed entrarono nell'oscura ombra della pineta; le nebbie si erano ormai dissolte col calore del sole.
L’Orso bruno era vissuto tutta l'estate cibandosi di piccoli animali trovati sotto le pietre o nei formicai e nei tronchi in decomposizione; di erbe e di frutti selvatici, e a volta di qualche piccola renna predata nelle zone sottostanti o di qualche carcassa, abbattuta dai lupi. Allora aveva il suo rifugio nella foresta che ammantava la valle; ogni giorno un luogo diverso, scegliendo i posti più nascosti ed intricati nella vegetazione, spostandosi da un giaciglio all'altro, ogni volta riattandoli o scavandone di nuovi. Ora stava spostandosi verso i quartieri autunnali.
Nella notte, nelle radure e nelle paludi, la rugiada a volte già gelava sugli steli. Allora all'alba i raggi del sole filtrati dalla nebbia si disegnavano nell'aria come se trafiggessero i boschi.
Durante il giorno la cappa di nubi non abbandonò mai la vetta delle colline, anche se, a tratti, lievi pioggerelle sembravano schiarire il paesaggio. Banchi di nebbia continuarono a salire e a scendere lungo le valli, stagnando sul bosco. Sul far della sera scendevano poi fino a lambire il piano di Karsikoski, trasformando le foreste in un grigio inestricabile labirinto d'alberi che ne esaltava la vastità.
In un anfratto tra le rare rocce, l'Orso bruno si destò dal suo torpore. Si sollevò ed uscì deciso dal ricovero.
Le foglie stavano ormai da tempo mutando colore e nei luoghi più freddi molte erano già cadute. Nei boschi la sinfonia dell'autunno era iniziata con quei colori e con primi freddi. Era tornata la ruska finnica. Gli aromi erano diversi, diversi i rumori e l'atmosfera: era ovunque odore di muffe e di foglie morte, odore della terra umida, e mutato era il canto degli uccelli, o era sparito.
I rami e le foglie degli alberi stillavano l'umidità che si condensava con la nebbia, e il rumore di grosse gocce che battevano la lettiera morta accompagnava il frastuono dei passi dell'Orso bruno che saliva nella foresta dove per tutta la notte l'Orso bruno si aggirò pigramente tra i cespugli saziandosi.
Aveva ripristinato il giaciglio costruito chissà quanti anni prima da altri orsi, assestandolo con erbe, foglie e terriccio, ma soprattutto con resti di legno in decomposizione. Era una conca molto grande e infossata, nascosta ai piedi di un abete tutto contorto e rinsecchito per l'età.
La femmina stava attraversando
La femmina stava attraversando con i suoi cuccioli dell’anno un’ampia radura erbosa, ma non si soffermò in nessun punto, anche se il luogo offriva degli ottimi spuntini. Era diretta verso la sua tana che da tempo aveva rinvigorito e resa il più possibile confortevole per raccogliere al suo interno lei e i suoi tre giocherelloni orsacchiotti. L’inverno del grande nord, nel tardo autunno, poteva arrivare molto repentinamente e la femmina, che ne aveva l’esperienza, si era già ben preparata a scanso di qualsiasi imprevisto. L’implacabile gelo e la neve abbondante sarebbero arrivati con certezza e nulla poteva essere lasciato al caso.
L’Orsa stava transitando in un lembo di foresta per lei inusuale, quando l’odore di una carcassa la attirò ai margini del bosco. Vide una femmina di Orso morta e parzialmente divorata ai piedi di un grosso abete. Annusò la carcassa, ma non si interessò ad essa e riprese il suo cammino.
Probabilmente era stata uccisa da un grosso maschio. Incidenti di questo tipo sono eventi rari e in genere si verificano quando una madre cerca di difendere la sua prole dall’attacco dei maschi adulti.
Infatti un giorno la femmina con i suoi tre cuccioli stava pascolando tranquillamente in un ampia radura della foresta di Jarkoski, quando improvvisamente ai margini del bosco comparve un maschio di Orso bruno. La femmina smise immediatamente di mangiare, corse verso quell’orso, si alzò in piedi e si mise a soffiare e ad aprire le fauci con estrema violenza mostrando i suoi temibili denti. Cercò con grande veemenza di spaventare quel maschio, tanto che gli andò a stretto contatto e tentò di brandirgli una sonora zampata. Il maschio si ritrasse prontamente e, senza reazione alcuna, prese altra via allontanandosi decisamente dalla zona!
La femmina con i cuccioli è sempre molto attenta e, senza esitazione alcuna, è pronta ad attaccare con un fare molto aggressivo quando si tratta di proteggere i suoi indifesi piccoli.
Alcuni giorni dopo l’Orsa con i suoi tre cuccioli al seguito stava transitando in una radura nel mezzo della foresta, una radura umida ed in parte fangosa. Improvvisamente si fermò e si mise ad odorare una serie di impronte su fango lasciate da un altro orso. La femmina dall’odore che percepì comprese che erano della sua stessa specie e subito, guardinga, si alzò in piedi per annusare acutamente l’aria. Era preoccupata che in quel suo raggio di movimento vi fosse qualche altro orso e, potendosi trattarsi di un maschio, si rese estremamente tesa ed attenta. Ma una sua rapida ricognizione le fece capire che erano segni di qualche giorno e nessun orso era nei paraggi. Si rassicurò e con i suoi cuccioli che a tratti le lambivano quasi le zampe proseguì il suo deambulare.
L’Orso bruno aveva nel suo temperamento un misto di dinamismo e di profonda pigrizia. C’erano momenti di estrema attività come durante l’estro sessuale, o le dispute con altri orsi su qualche carcassa, o ancora quando cercava di predare qualche alce o renna, ma ogni volta che poteva, approfittava sempre per stendersi a riposare in un dolce far niente. Anche il suo deambulare era spesso guidato dalle circostanze. Se rinveniva un agevole sentiero già ben battuto, lo preferiva quasi sempre a salite occasionali e più faticose. Solo quando approdava nelle zone piatte della taiga, l’uniformità dell’orografia e il soffice manto dei muschi che rivestivano il sottobosco, lo spingevano a girovagare a caso senza dover trovare una pista già delineata.
Quel giorno il grande Orso bruno attese con pazienza che un ghiottone si allontanasse dai resti di un grosso alce maschio. Non che l’Orso non fosse in grado di scacciarlo, ma la combattività del mustelide lo infastidiva e preferiva attendere ad una certa distanza. Quando il ghiottone si allontanò perché probabilmente sazio, l’orso prontamente si portò sull’animale morto e, senza particolare avidità, mangiò per una trentina di minuti. Probabilmente aveva già pascolato a lungo in precedenza e quel inatteso pasto lo colse per così dire di sorpresa.
Il giorno successivo il grande Orso bruno aveva appena rovistato in un acervo di formica rufa e con un andare lento si diresse verso la palude. La foresta risuonava per il forte vento che spirava da nord, quando d’improvviso l’Orso si accorse di un grande alce maschio che era coricato vicino ad un vetusto pino silvestre in un apparente stato di riposo. L’Orso bruno gli si avvicinò a qualche metro e, grazie agli abbondanti muschi che coprivano l’intero sottobosco, il suo andare era estremamente silenzioso. Ma anziché approfittare della situazione per aggredire quella potenziale preda, si mise a sbuffare ed a raspare sul terreno. L’alce in un batter d’occhio si sollevò in piedi e precipitosamente si dette alla fuga. Spesso l’Orso bruno si comportava in quel modo dinanzi ad una grossa preda, prediligendo attaccare quasi sempre i giovani o in ogni caso gli esemplari più piccoli forse per non confrontarsi con una preda che avrebbe lottato, per difendersi, con estremo vigore. A quel punto, sempre pacatamente, l’Orso bruno si rimise placidamente in cammino.
L'Orso bruno abbandonò la valle
L'Orso bruno abbandonò la valle, salì a destra fino alla cresta frastagliata di alberi e scomparve nell'umida ombra del bosco; un altro Orso si allontanò nascondendosi nella stentata ma intricata vegetazione di quel luogo.
I primi freddi si fecero sentire in anticipo quell'autunno; già quasi tutte le foglie delle betulle, dei saliconi, degli ontani, dei sorbi erano da tempo cadute dopo che avevano mutato il loro verde nelle tinte giallo oro, rossiccio e violaceo delle foglie moribonde. Sui prati la brina scendeva ogni notte ad increspare la terra umida, e nelle bassure dove il freddo era più intenso la notte un velo di ghiaccio si stendeva sulle zone acquitrinose. Intanto le giornate, dopo l’ininterrotta luce del periodo estivo, si accorciavano repentinamente.
Le erbe dei prati erano ingiallite e morte e le paludi avevano assunto una tonalità diversa, arrossati anch'essi dai ritmi dell’autunno. Nei boschi le ultime foglie cadevano in continuazione, addossandosi sopra le altre.
L'Orso bruno aveva cominciato a scendere da un tunturo verso la piana sottostante.
Con un andare preciso l'Orso bruno attraversò la boscosa pendice fitta d'alberi scivolando come un fantasma tra i tronchi dei pini, diretto ad una località a lui ben nota in fondo alla foresta. Aveva già soggiornato là in primavera, riposando di giorno in un giaciglio posto ai piedi di un grosso abete cresciuto sopra alcune rocce.
Avanti nella notte l'Orso bruno ritrovò l'albero e ritrovò il giaciglio: i rami verdi dei pini che aveva spezzato per costruirsi quel suo strano nido erano ormai secchi e ciò portò l’animale a riassettare il giaciglio con decisi colpi delle zampe nel terreno, poi tornò ad imbottirlo rozzamente scrostando muschio e licheni ed infine si coricò a riposare.
Altri orsi erano stati in quel luogo, e i giacigli sparsi nella zona ne portavano i segni: mucchi di escrementi odorosi erano ammonticchiati ai loro margini, segni di quel riposare.
Il sole era ormai alto, ma non più come nel periodo estivo, quando l'Orso bruno si risvegliò cambiando posizione nel giaciglio. I raggi non scaldavano molto, smorzati dalle fitte fronte delle conifere. Un vento freddo da settentrione spirava con veemenza e scuoteva il bosco, accumulando le foglie morte nei luoghi dove l’orografia facilitava il loro addensarsi. E, nell'ombra di quella zona, la brina notturna durava tutto il giorno. Dove riposava l'Orso bruno, al riparo del vecchio abete, la temperatura era però leggermente mitigata dal pallido sole.
All'albeggiare, la femmina dell'Orso bruno prese a salire verso la sommità rotondeggiante del Monte Semioki, allontanandosi nella foresta seguita dai piccoli. L'orsa saliva lenta, ma i tre cuccioli erano invece costretti ad arrancare lesti sulle sue orme per non perdere il contatto. I plantigradi sbucarono sul pascolo, lo attraversarono e scesero sull'altro versante al riparo degli annosi pini e dei sporadici abeti che erano armonizzati in piccolo numero in quel tratto di foresta.
L'autunno avanzato aveva fatto scendere al suolo buona parte dei frutti selvatici e resi ancor più maturi gli onnipresenti mirtilli rossi.
Nel bosco l'Orso bruno gironzolava passando da un sorbo degli uccellatori all'altro, pigramente, cogliendo quello che la natura così facilmente gli concedeva in quella stagione che preannunciava l'inverno. Aveva bisogno di mangiare molto, di produrre molto grasso così che durante il lungo sonno invernale lo stimolo della fame non lo svegliasse. Quando non erano i sorbi, la sua attenzione era per i mirtilli o, ancora, per qualche acervo di formica, così abbondanti in quei boschi. L’accumulo di grasso utile al periodo della letargia invernale si concentra principalmente nel garrese e nella groppa in genere e, secondariamente negli interstizi muscolari.
Altri orsi frequentavano quelle zone; alcuni andavano e venivano dalle foreste circostanti, dove si sarebbero poi ritirati tutti prima del finire dell'anno.
Col freddo le rosse bacche del mirtillo, sempre un po’acre pur se mature, si addolcirono lievemente perché toccati dal gelo, e l'Orso bruno li divorò come un'ultima risorsa, iniziando a spostarsi verso le tane d'inverno.
I giorni passarono e i nudi alberi caducifogli, apparivano come sagome morte.
Quando giunse la prima neve ad imbiancare l’intero scenario, l'Orso bruno percepì quasi la fine del suo alimentarsi.
Il tempo ormai era sempre più mutevole e molte notti il gelo già si manifestava con pungente precisione. L’Orso bruno vagava ancora spesso nella foresta, ma già da tempo aveva dato una buona riassettata alla sua tana invernale perché percepiva interiormente che la stagione stava per concludersi. Attraverso il suo sguardo misterioso ed imperscrutabile, l’Orso cercava ancora qualcosa da mangiare e quello fu un giorno fortunato perché trovò i resti di un piccolo alce, già dilaniato dai lupi e in parte spolpato da corvi e volpi. Ma ancora qualcosa per lui c’era ed era un’ottima occasione vista l’incipienza del gelido e lungo inverno.
L’Orso bruno, sentiva dentro di se che stava per giungere il momento di fermarsi, di scendere dal palcoscenico della bella stagione. Le avvisaglie arrivavano palesemente dall’ambiente circostante, ma le più profonde venivano da dentro se stesso perché, per innata indole, gli arrivava interiormente l’imput sugli atteggiamenti da prendere in quei giorni di fine autunno.
Sui versanti più esposti al sole del mattino, il maschio di Orso bruno aveva predisposto le sue tane e i suoi giacigli invernali; erano concentrati in piccole zone ben scelte per il loro aspetto selvaggio, coperte dalla copiosa vegetazione arborea. Da generazioni gli orsi utilizzavano quegli stessi ricoveri, nei quali si trovavano ormai accumulati grandi quantità d'erba secca.
L'Orso bruno passò il giorno nascosto nei boschetti di pioppo tremolo sulle pendici più basse della collina, al limitare della pineta.
L’autunno con i suoi variopinti e multiformi colori annunciava a l’orso l’imminente approssimarsi della gelida stagione invernale, perché nel grande nord la neve e il gelo arrivano molto presto. L’Orso bruno lo sapeva molto bene e si affaccendava molto per reperire gli ultimi alimenti per accumulare la giusta quantità di grasso che gli avrebbe permesso di trascorrere l’intero inverno nella sua accogliente, pur se angusta tana, in attesa della rinascita primaverile. Ogni cosa che risultava a lui commestibile lo ingurgitava senza troppi pensieri passando dalle carcasse di renna o alce, alle bacche di mirtillo e di sorbo, ai rari pesci che riusciva a catturare o che trovava decomposti sulle sponde dei laghi e dei fiumi. Anche i formicai lo attiravano non poco, ma nel suo complesso anche in queste latitudini estreme erano sempre i vegetali a primeggiare percentualmente nell’ambito della sua onnivora dieta.
Il gracchiare insistente dei corvi ripetuto sempre in un medesimo luogo, era per lui sintomo della presenza di qualche carcassa e, ogni volta che poteva, li raggiungeva con estrema solerzia per approfittare di un pasto a buon mercato.
A volte indugiava per qualche istante prima di cibarsi di qualcosa che lo attraeva, ma la sua titubanza era solo il frutto che sul finire dell’autunno già avvertiva di essere quasi pronto ad affrontare al riparo il lungo inverno, tanto che simultaneamente diminuiva il suo appetito.
“Io sono un naufrago che rema senza sosta in mezzo al mare
sperando di approdare in qualche lido
non sapendo che non c’è più terra!”
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